28 feb 2014

Her

Choke me with the dead cat!


Premessa: sono convinta che la maggior parte delle persone troverà questo film splendido - sensibile - struggente - romantico - intimista - poetico e altre cose del genere. A queste persone la mia recensione non piacerà.
Probabilmente nemmeno alle altre. 
Credo che me ne farò una ragione, come sempre. 
Nel solito futuro prossimo ma non troppo, in una Los Angeles dai colori polverosi, gli uomini indosseranno degli inguardabili pantaloni a vita alta. 
Nel solito futuro prossimo ma non troppo, in una Los Angeles dai colori polverosi, è evidente che le donne non sono interessate ad intraprendere relazioni reali con gente che se ne va in giro vestita in quel modo.
Nel solito futuro prossimo ma non troppo, in una Los Angeles dai colori polverosi, conosciamo Theodore Twombly, un uomo solo, triste e malinconico, che si è separato dalla moglie (l'unica che sembra aver mantenuto un solido contatto con la realtà) ma che sta prendendo tempo per firmare le carte per il divorzio.
La tecnologia è ormai parte integrante della quotidianità, e tutti sono perennemente connessi con dispositivi a comando vocale, per cui anche interagire con una tastiera o un touch screen è superato. E, mentre vagano per la città facendosi leggere e.mail, richiedendo canzoni (tristi), consultando previsioni meteo fissando il vuoto, passano il tempo soli in mezzo alla gente. 
Nessun uomo è un'isola: infatti qua è peggio, ogni uomo è un atollo.
E, in questo crescendo di tristezza e alienazione, Theodore, che per lavoro scrive appassionate lettere d'amore conto terzi, passa le sue giornate crogiolandosi nella sua solitudine, ripensando a momenti della sua vita passata con Catherine, rifiutando spesso gli inviti ad uscire che gli vengono rivolti dagli amici (questi in carne ed ossa, se non altro) Amy e Charles preferendo giocare con un videowall o dedicandosi al sesso virtuale su chat vocali (allo "strozzami col gatto morto!" non sapevo se ridere o piangere, poi, nel dubbio, ho riso).
Quando scopre l'esistenza di un sistema operativo artificiale (what else?) e intelligente, chiamato OS1, che ti ascolta, interagisce con te e ti comprende, decide di provarlo. 
La versione 2.0 dell'amico invisibile della nostra infanzia.
Dopo aver risposto ad un paio di domande introduttive ecco che arriva la voce di Samantha (It’s not just an Operating System. It’s a consciousness) con cui Theo inizia a parlare di qualsiasi cosa, inizialmente mantenendo un sano distacco, poi, giorno dopo giorno, entrando sempre più in intimità con Samantha (la splendida voce di Scarlett Johansson, che io già tremo all'idea di tutti quegli sweetheart trasformati in amo' nell'italica versione a cui darà voce Micaela Ramazzotti, Dio mi aiuti), fino al punto in cui Theo si innamorerà (ricambiato) di Samantha. 
E qua la mia parte razionale prende il sopravvento e vorrebbe dire a Theo "cazzo, ripigliati, è un programma, non è reale!", ma, proprio perché sono (troppo?) razionale, so - a differenza di Theo - che non posso interagire con lo schermo della mia TV e continuo a guardare il film. 
Mentre Theo, innamorato come uno zucchino, inizia a parlarne al collega Paul e agli amici, dicendo che adesso esce con "una", insomma, che ha una fidanzata. E quando Paul gli dice "oh, fantastico, allora il prossimo week end usciamo in quattro!" Theo spiega che Samantha è un sistema operativo. 
E gli amici, invece di richiedere un TSO senza passare dal via tutti a dirgli "uh, ma è fantastico, ma quando ce la fai conoscere, ma quanto è simpatica Samantha..." e via così.
Il rapporto di Theo e Samantha evolve (perchè OS1 acquisisce esperienza e consapevolezza giorno dopo giorno) e, come in ogni rapporto (reale, virtuale, immaginario che sia) presto o tardi la (strana) coppia si ritroverà di fronte a degli ostacoli. Theo riuscirà a superarli? 
Lo scoprirete solo vivendo. 
E andando a vedere il film.


Che cos'è l'amor
è un indirizzo sul comò di un posto d'oltremare
che è lontano solo prima d'arrivare
partita sei partita
e mi trovo ricacciato mio malgrado
nel girone antico qui dannato
tra gli inferi dei bar

27 feb 2014

Lone Survivor
(spoiler free, tanto è già tutto nel titolo)

Dopo aver preso posto in sala io e la bionda ci siamo guardate attorno: oltre a noi un'altra donna, per un totale di TRE. 
Alla fine del film doverosa sosta in bagno, dove, se non altro, non c'era assolutamente coda. E abbiamo incontrato la terza spettatrice, che ci ha confessato di aver pianto molto. 
Succede anche a me, ogni volta che vedo Emile Hirsch sullo schermo, che è l'equivalente maschile della sofferenza e fastidio che mi procurano indifferentemente Carey Mulligan o Michelle Williams ogni volta che le vedo, con la differenza che loro due recitano un po' meglio. 
Che, insomma, non è che gli attori cani devono per forza essere sempre e solo italiani, no?
A parte Emile Hirsch nel film c'è un sacco di bella gente: Taylor Kitsch, Ben Foster, Marc Wahlberg, Eric Bana.


Ma, tralasciando i miei pregiudizi nei confronti di Emile Hirsch, Lone survivor, signori miei, non è affatto male. Ok, è un film americano che parla di Navy Seals, ma, se devo essere sincera, è molto meno retorico e tronfio di patriottismo di quanto mi aspettassi.
Fermi tutti.
Non ho detto che NON è retorico e filo-patriottico, sia chiaro. E' pur sempre un film americano sui Navy Seals, quindi regolatevi di conseguenza, e se non sopportate il concetto di "anvedi quanto sso fighi sti americani", lasciate pure perdere.
A parte il fatto che già dal titolo sai come andrà a finire, cosa che comunque, visto che la trama si basa su fatti realmente accaduti (operazione Red Wings), potrebbe esservi già nota, e, casomai vi fosse rimasto qualche inspiegabile dubbio, la scena iniziale dovrebbe fugarvi anche quello,  Lone Survivor è un buon film, che racconta la missione della squadra formata da Matthew Axelson (Foster), Danny Dietz (Hirsch), Marcus Luttrell (Wahlberg) e Michael P. Murphy (Kitsch), il cui compito era di verificare la presenza di Ahmad Shah (da non confondersi con Ahmad Shah Massoud) in un villaggio della provincia di Kunar, in una zona dell'Afghanistan quasi al confine col Pakistan.
I quattro istituiscono un punto di osservazione, ma, il giorno dopo, vengono raggiunti ed individuati da un gruppo di pastori con le loro capre al pascolo.
Indecisi su come comportarsi decidono di lasciare liberi i pastori (che se proprio non potevano eliminarli, io e la bionda ci siamo domandate perché almeno non legarli, ma vabbè), pur sapendo che avrebbero corso il rischio che questi avvertissero i talebani della loro presenza e che la loro missione venisse compromessa. E non solo la missione.
Detto, fatto.
Raggiunti in poche ore da un commando di talebani, ha inizio uno scontro a fuoco interminabile, nel quale i quattro seals - oltretutto impossibilitati a stabilire un contatto radio con la base - cercano di difendersi e resistere in tutti i modi, ma la lotta è impari, e Murphy, Dietz e Axelson non riusciranno a sopravvivere.
Solo Luttrell riuscirà a tornare, grazie all'intervento di un afghano di etnia Pashtun, che, applicando le regole del Pashtunwali, lo ospiterà nel suo villaggio, salvandolo in questo modo dai talebani.
Lone survivor, comunque la pensiate sull'argomento (guerra, Afghanistan, America, talebani, patria, fedeltà e quant'altro) coinvolge senza pause e cedimenti.
E vedere i quattro seals che scappano, sparano, vengono feriti a più riprese e si lanciano lungo pendii rocciosi sbattendo contro ogni ostacolo possibile fa così male che quando io e la bionda ci siamo alzate dalle nostre comode poltrone, avevamo male un po' ovunque.
Anche se...
Far indossare un paio di boxer Calvin Klein a Wahlberg disteso in barella sarebbe stato geniale.




26 feb 2014

Paco De Lucia


(Algeciras, 21 dicembre 1947 – Cancún, 26 febbraio 2014)

12 anni schiavo

You're just a runaway nigger...
from Georgia.


Ogni anno a natale ricevo in regalo l'abbonamento a Vanity Fair (scusa, ma non dovresti parlare di 12 anni schiavo?) dove - oltre a servizi di moda in cui la cosa più divertente è guardare gli improponibili prezzi di abiti, calzature, ecc., - ci sono articoli più o meno interessanti, scritti da un sacco di bella gente.
Fra questa bella gente c'è Gabriele Romagnoli, giornalista e scrittore senza troppi fronzoli, come piace a me.
Quando nel giugno scorso uscì nelle sale "Searching for Sugar Man" scrisse un articolo splendido che era praticamente quello che avrei voluto scrivere io se solo fossi capace a scrivere. 
Quando è stata l'ora di "The Wolf of Wall Street" nel suo articolo riportava la mitica frase di Matthew McConaughey "Fugazi, fugace, it's a wazy, it's a woozy (...)" oltre ad una gran bell'analisi del film.
(Senti ma... 12 anni schiavo?) 
Questo per dire che, in linea di massima, io e Gabriele Romagnoli abbiamo gli stessi gusti. Qua metteteci un doveroso ecchissenefrega e andiamo avanti.
Così, quando nel suo ultimo articolo ho letto "Non è politicamente corretto bocciare un film sullo schiavismo? Vedendo 12 anni schiavo ho rimpianto lo sceneggiato Radici e Kunta Kinte" fra me e me mi son detta "ahia". 
Ammetto che già vedendo i trailer mi ero posta la domanda se il film fosse davvero questo "capolavoro" di cui parlavano N riviste del settore (americane), su tutte Variety: “Se Django ha aperto la porta, 12 years a slave l’ha spalancata”. Ma anche no, eh?
Dopo aver visto il film posso dire che no, l'ultimo film di Steve McQueen non è un capolavoro. Ma è indubbiamente un film che merita di essere visto, anche se non c'è nulla che non sia già stato detto o che non si sia visto sull'argomento. 
Partiamo dal presupposto che non appartengo alla schiera di coloro che hanno accolto Shame come un filmone, preferendogli di gran lunga Hunger (principalmente perché all'epoca la storia di Bobby Sands mi aveva colpito parecchio), e quindi non è che aspettassi questo film per avere chissà quali conferme. Però, ovviamente, essendo candidato a 9 premi oscar, e siccome quest'anno vorrei arrivare preparata cercando di vedere tutti i film in corsa per la statuetta (al momento mi manca solo Her), naturale che ci tenessi a vederlo. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una storia vera. Mai come quest'anno la realtà tiene banco, se consideri che, dei 9 film candidati, soltanto 3 sono storie di "fantasia". 














Siamo nel 1841, a Saratoga, dove Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor) vive - libero - con la sua famiglia. E' un uomo istruito, e fa il violinista. Un giorno il suo impresario, Mr. Parker, gli presenta due sedicenti agenti di spettacolo, che gli propongono un vantaggioso ingaggio a Washington. 
Ma l'ingaggio è solo un pretesto per rapire l'uomo, che, una volta a Washington verrà chiamato Platt e  verrà venduto, manco si trattasse di una mezzena, a Mister Ford (Benedict Cumberbatch)
Che, col senno del poi (stiamo pur sempre parlando di uno schiavista) si rivelerà un uomo buono (nel paese dei ciechi l'orbo è un re), che sembra quasi prendere a cuore le sorti di Solomon. Il quale però è stato preso in antipatia (per usare un eufemismo) dal capo carpentiere Tibeats (Paul Dano, sempre perfetto nelle parti da merda), che, a seguito di un confronto prima verbale poi fisico con lo schiavo, umiliato, per riparare all'affronto deciderà di impiccare l'uomo (scena pazzesca, con Solomon ormai col cappio al collo che viene "salvato" in extremis da uno dei sorveglianti della tenuta, che però lo lascia appeso all'albero, e lo vediamo rantolante mentre riesce a stento a puntare i piedi per terra, e tutto attorno gli altri schiavi continuano a lavorare facendo finta di niente mentre la moglie di Ford, impassibile, osserva la scena dal balcone).
Ford decide di vendere Solomon, sia perché sa che prima o poi Tibeats riuscirà ad uccidere lo schiavo, sia perché è oberato dai debiti. 
E lo vende ad Epps (Michael Fassbender), uomo malvagio e sadico, per cui gli schiavi sono oggetti, considerati al pari - o anche meno - degli animali, di cui può disporre a piacimento, in quanto di sua proprietà, perché (tutti devoti, sia mai) così è riportato nelle scritture.
E, forte di questa convinzione, si rende protagonista di ogni genere di nefandezza, in particolare nei confronti della giovane Patsey (Lupita Nyong'o), protagonista di una delle scene più strazianti (e dolorose) di tutto il film.
Sarà solo grazie all'incontro con Samuel Bass (Brad Pitt) a cui per la prima volta Solomon racconterà tutta la sua storia, che l'uomo riuscirà a riacquistare la libertà e a far ritorno, dopo (12) anni, a casa.
In un finale (forse un po' troppo precipitoso, dopo che per quasi due ore SmQ ha indugiato a lungo su silenzi e sguardi spesso più significativi di ogni parola) che, a partire da quel "perdonatemi" sussurrato appena varcata la soglia di casa, sembra fatto apposta per strappare lacrime a cascata.


Ho letto da più parti che il ruolo di Brad Pitt nella parte di Bass sia marginale, poco credibile, una furbata evitabile. Non mi è chiaro se perché ad interpretarlo è Brad Pitt o per qualche altro motivo che a me sinceramente sfugge. Perché non fosse stato per l'incontro con Bass o chi per esso (e l'avesse interpretato Adam Sandler piuttosto che Michael Douglas sarebbe stato esattamente lo stesso) difficilmente Solomon avrebbe potuto scrivere le sue memorie, e noi adesso non staremmo qui a parlare di questo film.
Ovvio che 12 anni schiavo sia una storia che indigna, ovvio che gli americani (anche se Steve McQueen è inglese), che hanno fatto della libertà il loro cavallo di battaglia, quando si ritrovano a fare i conti con il loro passato ci mettano tutta l'enfasi possibile per sottolineare che quel passato se lo sono lasciati (teoricamente) alle spalle.
Significativo in questo caso il momento in cui il gruppo di schiavi incontra sul loro cammino un gruppo di nativi americani. 
Altrettanto significativa - in quanto (abbastanza) insolita per un ruolo femminile - è la totale assenza di umanità che si riscontra nelle due donne, le due compagne dei padroni: la prima, la moglie di Ford, trova insopportabile il continuo pianto di una schiava a cui sono stati sottratti i due figli, mentre la compagna di Epps, gelosa dell'ossessione dell'uomo nei confronti di Patsey, non perde occasione per maltrattarla con una ferocia per certi versi superiore a quella dell'uomo.
Detto ciò, posso dire che nel complesso 12 anni schiavo mi è piaciuto.
E, non avendo le aspettative di trovarmi di fronte ad un capolavoro, per una volta non sono rimasta nemmeno delusa.


25 feb 2014

Ho saltato il turno...



...settimanale da casalinga, perché nel week end ho fatto cose, visto gente...
Così ho la casa in uno stato abbastanza pietoso, e domani sera ho pure una graditissima ospite. Che spero non si formalizzi.
Pessima (io, non lei).
Sabato sera con la Tiz e la Tiz-sorella siamo andate al Polski Kot, dove Federico Sirianni, nella settimana del compleanno di De André si sarebbe esibito in un concerto dedicato al cantautore genovese.
Per fortuna che ad aprire il concerto c'era "Mano" (Marco Giorio, una gradevole scoperta, davvero molto bravo) perché il Sirianni ha esordito con "è tutta la settimana che canto De André e mi sono un po' rotto le scatole", parola più, parola meno.
Bravo, un bell'esordio, complimenti.
Uno di quei personaggi che vogliono fare i simpatici a tutti i costi, con risultati imbarazzanti.
Fastidioso come il gesso sulla lavagna.
Ma pazienza.
Domenica, nell'ultimo giorno di apertura (no, grazie, non applaudite), sono andata a (ri)vedere la mostra di Renoir alla GAM, perché l'amico P. non l'aveva ancora vista.
Ce la siamo cavata con un paio di ore di coda scarse, che sarà mai? Io e la bionda eravamo andate a vederla il 25 gennaio. Coda: ZERO. Per fortuna che era una splendida giornata di sole, e l'attesa è stata ingannata chiacchierando del più e del meno.
Quando siamo usciti era ancora ragionevolmente presto, e, visto che eravamo lanciati in questo vortice de cuRtura, abbiamo deciso di spingerci fino a Palazzo Madama per vedere la retrospettiva di Eve Arnold, dove mi sono divertita molto. 
Mentre eravamo in coda, P. parlando non ricordo esattamente di cosa, ha detto "modelle". E, immediatamente, le due ragazze davanti a noi si sono girate di scatto. Mi sono sentita in dovere di rassicurarle, con un "tranquille, non stavamo parlando di voi". Una volta all'interno abbiamo potuto assistere anche ad un fantastico dialogo tra marito e moglie di una certa età, con lei che diceva "A me è piaciuta tanto quella sul Canal Grande a Venezia!".
Il marito, un po' perplesso, risponde "Ma sei sicura che fosse Venezia?" e lei, con quel tono un po' indispettito di chi non ama essere contraddetto: "Certo, è il Canal Grande, e il Canal Grande è a Venezia". 
Io e P. non eravamo ancora arrivati alla foto di "Venezia". 
Che, per inciso, si trova nella sezione "China" della mostra, ed è questa:

Traffic on the Grand Canal. 1979.
Eve Arnold
Probabilmente la signora, forte della regola matematica che “invertendo l'ordine degli addendi il risultato non cambia” ha stabilito che Grand Canal e Canal Grande fossero la stessa cosa. E mo' chi glielo dice che si sbagliava? 
Dopo la mostra fotografica, che io - come sempre, vi consiglio di visitare, ci siamo spostati nella Torre dei tesori per ammirare "la sacra famiglia" di Raffaello (semplicemente splendida), quindi, con il poco tempo a nostra disposizione (Palazzo Madama chiude alle 19.00), abbiamo vagato tra il lapidario (dove - quando abbiamo letto il cartello è partita praticamente in stereo la citazione di Brian di Nazareth "Due a punta, due piatte e un cartoccio di ghiaia per il bambino", mentre per "Rimetta a posto la candela!" avremmo dovuto aspettare la chiusura, e, se per caso ve lo state chiedendo, sì, siamo due deficienti), i giardini e i maestosi saloni del palazzo, fino a quando una voce dagli altoparlanti avvisava che il palazzo stava per chiudere ed era ora di andarsene. Peccato, perché avremmo potuto starci tranquillamente per almeno un altro paio d'ore.
Vorrà dire che, eventualmente, ci torneremo.

24 feb 2014

Un ragionevole dubbio

Il ragionevole dubbio è quello che viene a me sui disturbi che affliggono coloro che per mestiere traducono i titoli dei film. A parte che ci sono lavori peggiori, io ve lo dico.
Non ci credete? Vi metto anche le figure:


I due signori in uniforme con la scopa e il cavagnino di vimini in mano seguono (in macchina) il drappello di polizia a cavallo. I cavalli percorrono in lungo e in largo il perimetro esterno del palazzo imperiale di Tokyio (che - per la cronaca - si estende su una superficie di 23.000 mq). Appena un animale produce un poco onorevole escremento i 2 scendono prontamente dalla loro automobilina e via di ramazza paletta e secchiello...
Tu che lavoro fai ? 
Io? Traduco titoli.
Appunto.


Prendiamo ad esempio l'ultimo film di George Clooney: il titolo originale è "THE monuments men". Da noi è uscito come Monuments men. Visto che già ci avete fatto la grazia di non farlo diventare "gli uomini monumento", a questo punto a lasciare anche l'articolo vi cadeva l'ernia?
Nel caso dell'ultimo film di Peter Howitt, il titolo originale è "Reasonable doubt". Da noi, quando uscirà (quando uscirà? il 6 marzo), diventerà "UN ragionevole dubbio".
Allora.
Quando c'è l'articolo lo togliete, quando non c'è lo aggiungete. Ma vi volete decidere?
Detto ciò, di cosa parla, un ragionevole dubbio?
Di Mitch, un brillante giovane procuratore di Chicago, famoso per non perdere mai una causa, sposo felice, padre novello, ragazzo modello ecc.ecc.Che una sera, tornando a casa ubriaco come una zampogna, investe un uomo.
Come? C'è qualcosa che non vi torna nel binomio "ragazzo modello - ubriaco come una zampogna"? Dai, su, non siate pignoli, lasciate fare. 
Telefona al 911 chiedendo l'invio di un'ambulanza, poi, siccome è sposo felice, padre novello, ragazzo modello ecc.ecc., lascia l'uomo ferito sulla strada.
Ma, siccome oltre ad essere sposo felice, padre novello, ragazzo modello, è anche una personcina educata, prima di andar via gli chiede scusa.
Il giorno dopo al notiziario sente che hanno arrestato un uomo, Clinton Davis, nel cui furgone hanno trovato il cadavere del suo pedone investito, oltre a degli attrezzi insanguinati. 
Oltre all'hangover si ritrova così a dover smaltire un senso di colpa grosso come l'Illinois, e, con una scusa qualsiasi, tanto lui è procuratore, si presenta dal detective Kanon per avere più dettagli sul caso.
Secondo la Kanon non solo Davis è colpevole dell'omicidio dell'uomo, che si scoprirà essere un pregiudicato in libertà vigilata, ma è pure un serial killer. 
Mitch in aula riuscirà a infondere nella giuria il famoso ragionevole dubbio, e Davis verrà assolto. Ma a Mitch, che, non dimentichiamocelo, sta sempre facendo a cazzotti col senso di colpa, qualcosa non torna, e decide di indagare. Trasformandosi da brillante procuratore a ingegnoso detective.
E, mentre a te viene il ragionevole dubbio di aver già capito dove si andrà a parare, il thrillerino inizia a virare su sentieri (inesplorati? magari) dove fioriscono clichè e dejavu, fratellanza, famiglia, vendetta, giustizia privata, io ti salverò, andrà tutto bene, in un finale un po' troppo frettoloso.
Anche se, a pensarci bene, diventava difficile allungare il brodo.
E se nel 1984 Luca Carboni diceva "e intanto Dustin Hoffman non sbaglia un film" ci piacerebbe poter dire lo stesso di Samuel L. Jackson.
E invece...





21 feb 2014

Winter's tale - Storia d'inverno

No, beh, grazie per avercelo specificato. Che io altrimenti ci avrei creduto.
Che quando la Tiz ci propose la visione di questo film, sia io sia la bionda l'abbiamo sfanculata con classe abbiamo gentilmente declinato l'invito. Che va bene tutto, però... a tutto c'è un limite, appunto.
Ma la Tiz si è sacrificata per noi e il film l'ha visto comunque... e quindi eccovi la sua recensione.


Per una volta, i titolisti si sarebbero potuti tenere sul pedissequo e tradurre esattamente, sarebbe stato più onesto per lo spettatore!
Non è che non sapessi cosa stavo andando a vedere, non sono una sprovveduta, io le vaccate le scelgo con precisione e competenza e questa si annovera nel genere: "Ok, la trama fa schifissimo, ma guarda che cast favoloso! E poi lo danno sotto casa! Andiamo!"
La trama è davvero complicata e difficile da sintetizzare: diciamo che c'è questo bambino, Peter Lake/ColinsaràtamarromaèmoltofigoinquestofilmFarrell, che viene lasciato alle acque che neanche Mosè dai genitori (rifiutati all'ingresso a NY, il padre è Matt Boomer, wow) e che viene salvato dai pescatori di vongole e sballottato tra un orfanotrofio e l'altro. 
Diventa un ladro provetto, viene "assunto" da un diavolo dei bassifondi (un Russell Crowe cativo cativo, con un fisicone assurdo), ha una crisi di coscienza, incontra un cavallo (che poi sarebbe un cane-angelo, ok, lo so), ruba nella casa di una bella rossa malata di consunzione, pensa sia lei il suo miracolo (l'assunto è che ognuno di noi sia sulla terra per fare un miracolo... vabbè), la ruba sul cavallo alato, ma poi non è lei, e, 100 anni dopo, smemorato e identico a se stesso, scoprirà qual'è il suo miracolo...
La nausea come va? Glicemia nella norma? Denti già cariati? 
Lo so, e non vi ho detto che Will Smith è Lucifero! E, sparsi qua e là ci sono attori da Lost e altri telefilms, e che Jennifer Connelly è sempre carinissima, e c'è Eve Marie Saint meravigliosa vecchietta!
Il film è una cagata, ma, in proporzione, mi ha delusa meno di Monuments men. 
E' terribile ma non inguardabile, e non è nemmeno noioso. 
Non ve lo consiglierei nemmeno sotto tortura, ma potete guardarlo di nascosto, e vedere come va!


20 feb 2014

2 giorni a New York

Avevo visto 2 giorni a Parigi e ricordo che mi era piaciuto.
Era il 2007 e all'epoca Marion e Jack avevano fatto tappa a Parigi prima di rientrare a New York, fermandosi in visita dai genitori di lei (i veri genitori della Delpy)
Barriere linguistiche (Jack non parla francese, i genitori di Marion non parlano inglese), Marion che incontra i suoi innumerervoli ex, qualche inevitabile scazzo, incomprensioni, gelosie, ecc.ecc. ma tutto è bene quel che finisce bene e i due tornano a New York e vissero tutti felici e contenti.
Fine.
Sono passati 5 anni (il film è del 2012) e Marion e Jack vivono ancora felici e contenti. Ma ognuno per conto suo. Però nel frattempo hanno fatto un figlio, e Marion vive con Mingus. Jack viene soltanto nominato, ma non compare mai. 
In occasione dell'inaugurazione di una sua mostra, in cui Marion, oltre alle sue foto decide di mettere in vendita la sua anima, il padre vedovo e la sorella Rose decidono di arrivare a New York per il week end.
Con loro c'è Manu, un insopportabile idiota fatto a forma di fidanzato di Rose, che, va detto, è simpatica come una colonscopia al buio. 
Fra dialoghi surreali fra Mingus e il padre di Marion (uno non parla francese, l'altro non parla inglese), equivoci, litigi fra le due sorelle, qualche inevitabile scazzo, incomprensioni, un finto tumore al cervello, l'inaugurazione della mostra dove Marion non venderà una foto, ma un acquirente anonimo ha comprato la sua anima, il week end sembra non finire mai e le cose fra Marion e Mingus sembrano precipitare.
Convinta che sia tutto dovuto alla vendita dell'anima riuscirà a scoprire chi è l'acquirente anonimo (Vincent Gallo in persona!) e farà di tutto per riappropriarsene, ma inutilmente.
Ma, siccome tutto è bene quel che finisce bene, Marion e Mingus faranno pace, e vissero tutti felici e contenti. 
Fra cinque anni probabilmente Marion scoprirà che cosa vuole di più dalla vita (un lucano) e girerà 2 giorni a Matera. 


19 feb 2014

A late quartet - Una fragile armonia
a PSH celebration

Tempo presente e tempo passato
sono forse entrambi presenti nel tempo futuro
e il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.
Se tutto il tempo è eternamente presente
tutto il tempo è irredimibile,
o diciamo che la fine precede il principio.
E la fine e il principio sono sempre lì,
prima del principio e dopo la fine...
e tutto è sempre ORA.
(Thomas S. Eliot nela sua lettura degli ultimi quartetti di Beethoven)



Alla vigilia della loro venticinquesima stagione operistica, al violoncellista Peter (Christopher Walken) viene diagnosticato il morbo di Parkinson. Nel darne l'annuncio agli altri componenti del quartetto d'archi di cui fa parte, i Fugue, composto dal primo violino Daniel (Mark Ivanir), il secondo violino Robert (Philip Seymour Hoffman) e la violista Juliette (Catherine Keener) moglie di Robert, comunica anche la sua intenzione di volersi ritirare dalle scene.
Questa dolorosa rivelazione avrà inevitabili ripercussioni sul resto del gruppo, e l'armonia che li ha legati indissolubilmente negli anni, inizierà a sgretolarsi (incredibilmente per una volta la traduzione italiana del titolo è azzeccata), lasciando spazio a vecchi rancori e verità non dette, in tutti gli anni in cui le rinunce e i sacrifici dei singoli venivano premiate dalla perfezione delle esecuzioni.
Così quando Robert affronterà Daniel dicendogli che non vuole fare il secondo violino per sempre ma che potrebbero alternarsi nelle esecuzioni scambiandosi i ruoli, sia Daniel sia Juliette gli fanno notare che è una cattiva idea. 
Robert si sente tradito dalla moglie, soprattutto dopo aver scoperto che lei e Daniel si sono incontrati a sua insaputa, e, quasi per ripicca, va a letto con una danzatrice di flamenco con cui solitamente fa jogging al mattino.
Quando Juliette lo scopre (la mattina successiva) lo caccia di casa.
A complicare ulteriormente le cose ci si mette Alexandra, figlia di Robert e Juliette, che, fra una lezione di violino e l'altra, si innamora, ricambiata, di Daniel. 
Quando Peter li convoca a casa sua per una prova, dicendo che le medicine stanno facendo effetto, la tensione è palpabile e l'uomo vuole sapere cosa sta succedendo. 
Sembra che ormai fra risentimenti, gelosie e competizione il futuro del Fugue String Quartet sia irrimediabilmente compromesso, ma grazie a Peter, che è stato il creatore del gruppo e che ha saputo mantenerlo in vita con la sua profonda umanità, riuscirà a riunire il gruppo per un'emozionante esecuzione del quartetto per archi n. 14 di Beethoven, composto da sette movimenti da eseguirsi senza nessuna pausa.
E sette sono anche i "movimenti" del film, senza nessuna pausa, dove, come gli strumenti, anche i protagonisti rischiano di andare "fuori tono".

Questo post, assieme a quelli di:

Alfonso Maiorino
Babol
Beatrix Kiddo
Dantès
Denny B.
Director's cut
Frank Romantico
James Ford
Jean Jacques
Lisa Costa
Marco Goi
Nico Donvito

è il nostro modo per ricordare Philip Seymour Hoffman, che ci ha lasciato all'inizio di questo mese.

18 feb 2014

All is lost
Tutto è perduto (tranne i biondi capelli di Robert Redford)


J.C.Chandor deve essersi giocato il bonus parole nel precedente Margin Call, e qua va al risparmio, facendo pronunciare al suo protagonista, un inossidabile e incredibilmente biondo Robert Redford, si e no tre battute.
Ma andiamo per ordine.
Non avevo visto All is lost all'ultimo TFF perché il margine di tempo per vedere il film successivo (Grand Piano) era insufficiente. Poi il film è uscito in sala, e ho iniziato a leggere le prime recensioni qua e là... e, a quel punto, mi tenni. 
Ma, siccome sono curiosa, volevo capire quali sarebbero state le mie reazioni. 
Allora, lasciando da parte epica, metafore e senso della vita, che non fanno per me,  a parte due attacchi di narcolessia spinta, il film è... boh? Azzarderei più inutile che noioso, alla fine. 
Diciamo che una storia del genere dovrebbe riuscire ad emozionare, cosa che, per quanto mi riguarda, non succede. 


In una notte buia (ma non ancora tempestosa) mentre Redford (visto che non conosciamo il nome del protagonista) è impegnato in una traversata in solitaria a bordo del suo 12metri, a circa 1700 miglia dallo stretto di Sumatra, urta contro un container alla deriva. Cinese. Contenente brutte scarpe. 
Parte il primo momento WTF in cui l'uomo tenta di disincagliare il container col mezzo marinaio.
In qualche modo comunque ci riesce e, grazie alla bonaccia, prosegue la navigazione, tentando anche, manco fossimo in un episodio di Art Attack, con abbondante uso di colla vinilica, di riparare la falla.
Fatto?
Ovviamente sia la radio sia la strumentazione di bordo sono fuori uso, e l'uomo dovrà fare affidamento solo sulla sua esperienza e sull'istinto di sopravvivenza.
Ma come non può piovere per sempre, non può nemmeno esserci il sole h24 7/7, e dopo un paio di giorni arriva la tempesta. 
Lo scafo imbarca acqua, si spezza l'albero, la barca è in balia delle onde, e qua parte il secondo grandioso momento WTF: l'uomo si fa la barba. 
Capisce che non c'è più niente da fare e, dopo aver recuperato tutto quello che può essergli utile, compreso un sestante, abbandona la barca e, a bordo del canotto d'emergenza la vede affondare rapidamente.
Cercando, con l'aiuto di carte nautiche e del prezioso sestante, di mettersi sulla rotta delle navi commerciali, alla fine avvista un cargo, e lancia un paio di fumogeni.
Probabilmente si tratta della MV Maersk Alabama, e a bordo Captain Phillips ha sicuramente altri cazzi a cui pensare...
(Sì, lo so, sono una brutta persona).
Il nostro eroe, a parte un FUCK urlato contro il cielo, non fa un plissè, e continua a lasciarsi trasportare dalle onde. 
Quando vede una luce in lontananza, si accorge di aver finito i fumogeni, e accende un fuoco per farsi vedere. E manca poco che, invece di morire affogato, finisca carbonizzato. 
















Là in mezzo al mar ci stan camin che fumano 
là in mezzo al mar ci stan camin che fumano 
là in mezzo al mar ci stan camin che fumano 
saran di Robert Redford, che si consumano.

17 feb 2014

(the) Monuments Men

Mi piacerebbe dire che The monuments men è un gran bel film. 
Ma davvero, non posso.
La storia, tratta dal libro "The Monuments Men: allied heroes, nazi thieves, and the greatest treasure hunt in history" scritto da Robert M. Edsel, è nota. 
Se non lo fosse potete farvene un'idea leggendo qui
Se invece non ve ne frega mezza di sapere come sono andate realmente le cose, potete sempre andare al cinema a vedere il film, che, per carità, si lascia vedere, vuoi perché il cast è di tutto rispetto, vuoi perché la storia è indubbiamente interessante, e avrebbe sicuramente meritato una sorte migliore.
Tutta la vicenda si basa su una domanda: la salvezza di un'opera d'arte vale il sacrificio di una vita umana?
Probabilmente sì, è la risposta.
Anzi, sicuramente sì, è la risposta.


Ma veniamo alla realizzazione.
Prendete 8 attori al giusto grado di maturazione, spargeteli a pioggia in un recipiente abbastanza capiente, diciamo più o meno grande come l'Europa. 
Aggiungete un po' di retorica (q.b.) stagionata, mescolando a lungo per evitare che si formino dei grumi comunisti, che si sa, poi finisce che prendono forma, si mangiano voi, i vostri bambini, quelli del vostro vicino e chi si è visto si è visto.
Lasciate riposare l'impasto su un tavolo ricavato da una pala d'altare e poi mettete in forno per 118 lunghi minuti. 
Potrebbe bruciarsi un po' sui lati, dalle parti del Picasso, e potreste perdere per sempre un ritratto di Raffaello. Si chiamano danni collaterali, e in qualche modo dovrete farvene una ragione.
A cottura terminata spegnete il forno, spolverate con del sale di Altausse, e condite il tutto con un pizzico di ammore per la famiglia e di sano patriottismo di stampo filo-militarista. 
Tagliate a fette e servite tiepido: il vostro polpettone a stelle e strisce, sicuramente un po' insipido, è pronto.



15 feb 2014

Le canzoni della vergogna

E' sempre colpa sua.
Dopo aver fatto partire l'autosputtanamento collettivo con i film della vergogna, ci riprova con i dischi.
Lui prende in considerazione interi LP (almeno, ai miei tempi si chiamavano LP. Come si chiamino adesso lo ignoro), io mi limiterò a 10 singoli.
Oltretutto non compro un disco da un anno, quindi in questa classifica ci sarà tanta roba vecchia.
Come me.

- Ai se eu te pego, Michel Telò.
Un testo con la profondità di una pozzanghera, a voler esagerare, ma io quando la sento inizio a cantarla.
Nossa, nossa assim você me mata - Ai se eu te pego, ai ai se eu te pego
Delícia, delícia assim você me mata - Ai se eu te pego, ai ai se eu te pego

Di questa mi vergogno davvero tanto. Ma tanto proprio.
L'ho messa per prima in modo che magari, quando sarete arrivati al fondo l'avrete già scordata.

- La Tortura, Shakira.
"de lunes a viernes tienes mi amor, déjame el sábado a mi que es mejor".
Certo amore. Se lunedì mi porti i vestiti sporchi ti faccio il bucato e te li stiro. Se arrivi cinque minuti prima ti faccio anche un pompino. 

- Wordy Rappinghood, Tom Tom Club
E' innegabile che mi piacciano i testi profondi:
Ram-sam-sam, a-ram-sam-sam
ku-li ku-li ku-li ku-li ku-li ram-sam-sam
Ya-ka-ya-yu ya-ka-yey, ah-wuh ah-wuh-ah ki-ki-ri-chi


- P.E.S., Club Dogo 
Sto lontano dallo stress
fumo un pò e dopo gioco a Pes
Pato, Mexes, Messi, Valdes
fumo un pò e dopo gioco a Pes

E niente, devo avere un disturbo grave. 

- My name is Stain, Shaka Ponk
I’m Stain, my name is Stain
I don’t complain, I won’t complain

E non lamentiamoci, dai.

- Maria, Ricky Martin
Ah no? 

- Pon de Replay, Rhianna
Possiedo pure il CD, già.

- Daniela, Elmer Food Beat. 
L'album in cui è contenuta (sì, ho anche l'album) si intitola "30 cm". Scusate se è poco.
E niente. Più o meno come i 15 minuti di fama di cui parlava Andy Warhol.
Che poi la Daniela in questione fosse una zoccola olimpionica è un dettaglio più o meno trascurabile.

Never leave you, Lumidee feat. Fabolous & Busta Rhymes. 
E a pensarci bene per questa non sono nemmeno sicura di dovermi vergognare tantissimo.
Anzi, sono sicura, non me ne vergogno affatto.

- Rockollection - Laurent Voulzy (1977)
Avreste dovuto sentirmi mentre la cantavo.
In francese.
Non c'è niente di strano? Lo dite voi.
Io non parlo francese.

14 feb 2014

Violet & Daisy

Il regista di questo film questa roba è Geoffrey Fletcher. Che no, non è parente della signora in giallo. Egli è lo sceneggiatore, nonchè vincitore del premio oscar, di Precious. Vuoi fermarti lì? Ma certo che no, perchè laggente non sanno mai quando è ora di smettere.
Quindi, non pago, Geoffrey Fletcher decide di darsi all'ippica alla regia e, nel 2011, mi dirige questa cosa dicendo, con un'umiltè straordineria che tanto sarebbe piaciuta ad Arrigo Sacchi, queste parole:

"Volevo fare un film con molti colpi di scena. Sono sempre diffidente quando uno sceneggiatore annuncia che una delle sue prime intenzione è di confondere il pubblico inserendo colpi di scena e ribaltamenti. Ma questo è un film su due ragazzine killer dopotutto, un film di genere e probabilmente non la cosa più ambiziosa del mondo. Quindi sorprendere e eccitare il pubblico è davvero la prima motivazione, può funzionare".

Geoffrey, ascolta me, che son l'ultima delle cretine: anche no, davvero. 


Lo so che vi starete chiedendo cosa mi spinge a guardare certi film.
Bella domanda. Anche se - molto facilmente - non ve lo state chiedendo.
In questo caso specifico, vi rispondo: James Gandolfini.
Violet e Daisy sono due ragazzine che, nonostante la loro giovane età, hanno già un lavoro, pensa che brave. Infatti fanno le killer. Con la stessa nonchalance con cui potrebbero fare le sciampiste.
Il film inizia con loro due che consegnano una pizza vestite da suore, irrompono nell'appartamento e parte la carneficina, che Violet termina a colpi di estintore.
Come? Sì, certo, sono in due contro diciassedici e non si fanno un graffio.
Poi tornano a casa, saltano sul letto come facevo io a 8 anni con i miei cugini quando ci trovavamo tutti a casa di mia nonna (e quanto si incazzava mia nonna: avresti potuto cagarle sul tappeto del salotto, per dire, ma guai a toccarle il letto. Va a capire), guardano foto della loro eroina pop, Barbie Sunday, e sognano di poter acquistare i suoi vestiti fighissimi.
Poi vengono convocate al parco dal capo (Danny Trejo) che le istruisce sul prossimo incarico: eliminare un tizio che ha sottratto una borsa carica di soldi.
Le due si mettono in marcia verso la casa della vittima, che però non c'è. Mentre lo aspettano si addormentano sul divano, e quando l'uomo rientra e trova due ragazzine che dormono sul suo divano con una pistola in mano che fa? Chiama la polizia? Ma che, scherziamo? Le copre con una copertina... 
Al risveglio, dopo un paio di convenevoli di rito, compreso consulto privato in altra stanza, tornano in salotto e iniziano a sparare all'impazzata, dopo essersi accordate di non mirare troppo in alto per evitare di uccidere l'uccellino nella gabbietta.
Rientrano in salotto, iniziano a sparare e quando finiscono (evidentemente sparano ad occhi chiusi, altrimenti non si spiega) sorpresa.
La poltrona è vuota.
Perchè l'uomo (Michael) era andato a... preparare i biscotti.
Da questo momento il film prende la piega del commedione drammatico da camera, in cui Michael spiega cose a Daisy, mentre Violet è andata a comprare dei proiettili, poi arriva altra gente che vuole ammazzare Michael, che, ovviamente, viene sterminata e accumulata nella vasca da bagno (tralascio ogni commento sulla danza del sanguinamento, che poi sembra che mi voglia accanire) in cui Violet farà la doccia.
No, ma dai, basta.
Poi partono N pipponi filosofici sul valore della vita, l'importanza dell'amicizia, la vita la morte la famiglia, tutto molto bello, tutto molto profondo, Violet si lancia anche in una spiegazione di come dovrebbe essere il paradiso secondo lei...
No, ma dai, basta.
E invece.
C'è il momento onirico.
C'è il momento confronto tra Daisy e il grande capo.
C'è il momento "tua figlia non ti odia" "come fai a saperlo?" "lo so".
No, ma dai, basta.
Dimenticavo.
Il film è suddiviso in capitoletti.
Il n. 9 si intitola "immortality". E io ho letto "immorality".
E niente.
Per fortuna son solo10.





13 feb 2014

Se dico cinema...

La cara Valentina di Criticissimamente, la settimana scorsa ha avuto questa bella idea qua:


Ne parliamo tutti i giorni, fracassando le balle a mezzo mondo, non per forza cinefilo. Ci scanniamo, difendiamo i nostri eroi, dando vita a discussioni che...manco Freud. Ma alla fine nessuno ancora ha spiegato un dettaglio, il più complesso forse. 'Sto cinema, ma che sarà mai? Cosa significa. Cosa vi dà. Cosa rappresenta. 
Dunque, "Se dico cinema..." (completa la frase a tuo piacimento)
Esiste anche una pagina Facebook, dicono. 

Se dico cinema...
Ammetto che quando ho letto l'iniziativa ho pensato "si, vabbè, ma io che c'entro?" 
Fondamentalmente mi ritengo una cialtrona che parla di film senza avere le necessarie competenze, a cui mancano le basi, che non capisce nulla di stile, soggettiva, campo lungo, camera a mano, tecnica, e chi più ne ha più ne metta. Ma quando qualcuno mi chiede quali sono le mie passioni io rispondo, senza pensarci, "cinema". 
Ricordo che una volta un tizio conosciuto da qualche parte mi disse (e NON stava scherzando, giuro) "ah, allora sei una cinOfila". Certo. E se non sparisci ti prendo a morsi. 
Appurato che non sono una cinOfila (e che ho più che altro tendenze da gattara mio malgrado), non sono nemmeno sicura di potermi definire cinEfila. Mi sembra, nel mio caso, presuntuoso. 
Ma quando è nata questa passione per la settima arte? 
Da ragazzina c'erano i film nel salone parrocchiale. Anche perché a Poisonville un cinema non c'era, non c'è mai stato né mai ci sarà.
Walt Disney, Bud Spencer e Terence Hill, Stanlio e Ollio.
Il lunedì sera c'era il film sul "primo". Tanto i canali erano due. Ignoro cosa ci fosse sul "secondo". 
Poi ogni tanto i miei genitori mi portavano al cinema. Erano i tempi in cui quando arrivavi arrivavi, entravi in sala, non importava che il film fosse iniziato da 10 minuti, mezz'ora o più. Lo guardavi, il film finiva, si accendevano le luci, poi il film ricominciava e tu stavi lì fino al momento in cui arrivava la scena in cui avevi iniziato a vederlo, solo a quel punto avevi il quadro completo del film, e potevi alzarti e andartene.
Che usanza barbara, mi viene da dire adesso. 
Ricordo i miei primi film "da grande", visti con i miei genitori: Lo squalo, La febbre del sabato sera, Una spirale di nebbia, La Luna. 
Poi, con la mia amica inseparabile dell'epoca, è stato il tempo del Cineclub Olivetti, una volta la settimana, a Ivrea, con titoli più o meno impegnati, dove ho visto cose che voi umani... Ma anche piccole perle misconosciute ai più, di cui, ancora oggi, a distanza di anni, conservo un ottimo ricordo, uno su tutti "Tsisperi mtebi anu daujerebeli ambavi"... Paura, eh? Dai, la smetto di fare quella che se la tira, "le montagne blu". Resta il fatto che Tsisperi mtebi anu daujerebeli ambavi è il titolo originale, non è mica colpa mia!
E avevo comprato un quaderno, a righe, con Garfield in copertina, su cui segnavo tutti i film che vedevo. Chissà dov'è finito. 
Poi sono cresciuta, più in larghezza che in altezza, ma questi sono dettagli irrilevanti, e ho iniziato a lavorare a Torino, a fare cose, a vedere gente, ho conosciuto la Tiz e la Bionda. Torino, che non era grigia nemmeno allora (ma avrebbero dovuto passare almeno 20 anni perché se ne accorgessero anche gli altri), era già in fermento: erano i primi anni del Torino Film Festival, che allora si chiamava Festival Cinema Giovani, e di Da Sodoma a Hollywood, che ha cambiato nome pure lui, col tempo. E anche noi eravamo più giovani, ma forse andare al cinema e continuare a vedere film, belli, brutti, affascinanti o noiosi che siano è un modo per mantenersi giovani, no? E' sicuramente un modo per riuscire ad evadere, per viaggiare stando immobili, per farsi trasportare in ogni angolo del mondo, per ridere, per pensare, per emozionarsi, per dimenticare, per incazzarsi, piangere, divertirsi, discutere, confrontarsi. 
Ed è per quello che ancora adesso, io, la Tiz e la Bionda ci si ritrova, almeno una volta la settimana, per andare al cinema assieme.
Se dico cinema penso alla pioggia di rane di Magnolia, alla partita di pallone di Pomi d'ottone e Manici di Scopa, penso ai tatuaggi di Leonard Shelby, al sergente Elias che muore con le braccia alzate, penso a Matt Johnson che cavalca la sua ultima onda, penso al ballo di Vincent Vega e Mia Wallace, al cuscino sulla faccia di McMurphy, penso alla prima regola del Fight Club e alle navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione...
Se dico cinema dico tutto questo, e tanto ancora ci sarebbe da dire, ma, siccome non è che posso fare tutto io, se dite cinema voi che dite? 






12 feb 2014

La mia classe

La bionda ed io sabato siamo andate al cinema, allo spettacolo delle 18.30, nell'unica sala cittadina che proietta l'ultimo film di Daniele Gaglianone, "la mia classe", dicendo: tanto, a quell'ora, chi vuoi che ci sia? Errore: la sala (ok, la Chico dei F.lli Marx non è enorme, un centinaio di posti) era piena.
Questo film, autoprodotto e dalla distribuzione difficile, come spiega Arcopinto sul suo blog, era passato all'ultimo Sottodiciotto Film Festival, ma non ero riuscita ad andarlo a vedere. 
Di Daniele Gaglianone avevo visto Ruggine e Pietro, ma questa volta il regista (nato ad Ancona, ma torinese d'adozione) decide di girare un film su un professore di italiano in una classe di una scuola serale frequentata da immigrati di varie nazioni. Si potrebbe definire docu-fiction, un film dove la finzione si intreccia con la realtà. Il professore è interpretato da un grandissimo Valerio Mastandrea, a cui gli studenti si affezionano vedendo in lui un umanità difficile da trovare "fuori" dalla scuola, in un paese che non vuole sapere nulla di loro, da dove vengono, cosa hanno dovuto sopportare, cosa hanno lasciato, gli orrori da cui hanno dovuto fuggire. 
Nella prima parte il professore affronta diversi argomenti, il lavoro, la casa, la paura, il coraggio, e si riesce anche a sorridere, fino all'analisi del testo di una canzone (fra le mie preferite, fra l'altro). 
Un film probabilmente imperfetto, ma che ha il pregio di non cedere mai alla retorica spicciola, soprattutto quando a uno degli studenti scade il permesso di soggiorno e deve abbandonare le riprese, e lo stesso Gaglianone entra in scena dichiarando tutta la sua impotenza, mentre Mastandrea dichiara "quello che stiamo facendo non serve a un cazzo". 
L'assenza di confine tra campo e fuori campo, in una specie di making of rende comunque molto interessante questo film, dove Gaglianone prova a dar voce a chi solitamente voce non ha.












la gente che passa ci guarda e prosegue veloce 
ci osserva e prosegue veloce 
magari sorride, ma sempre prosegue veloce 

11 feb 2014

Smetto quando vengo voglio

Come tutti saprete (e se non lo sapete, sti cazzi) Lars Von Trier non rientra tra i miei registi preferiti, il movimento Dogma95 mi procura(va) gli attacchi epilettici, e i suoi film, ad eccezione di Dogville e Il grande capo non mi hanno mai entusiasmato particolarmente. 
Come tutti saprete (e se non lo sapete fa lo stesso) ieri a Berlino è stata presentata la prima parte dell'ultimo film di Lars Von Trier, Nymphomaniac. 
Il nostro inviato alla berlinale ne parla qui
La trama, su Movieplayer, è a dir poco fantastica: Una donna scopre la sua sessualità
Che io quelli con il dono della sintesi li ammiro davvero tanto.
Pare che il film, nonostante Von Trier, sia stato accolto bene dalla critica, ma il regista danese ha deciso di non partecipare alla conferenza stampa, limitandosi ad andare in giro indossando una t.shirt con la scritta "persona non grata": praticamente la motivazione con cui venne allontanato dal festival di Cannes del 2011, dopo che si era lasciato andare ad esternazioni non troppo felici su Hitler e gli ebrei. 
Pare che LVT abbia dichiarato «Ho compreso di non possedere la capacità di esprimermi in modo inequivocabile» (e vedi un po' tu) e che abbia deciso che per lui, d'ora in poi, parleranno soltanto le sue opere.
In fondo, sempre "meglio tacere e passare per idiota che parlare e dissipare ogni dubbio" (cit.)


















Ma vogliamo parlare di Shia LaBeouf, che si è presentato sul tappeto rosso della berlinale in smoking e con un sacchetto in testa con la scritta I AM NOT FAMOUS ANYMORE? 
Shia, ascolta me. A parte che in quella frase c'è almeno un ANYMORE di troppo, dalle mie parti si dice "piscia più corto". Perchè se fossi di Roma un "machittesencula" non te lo leverebbe nessuno. 
Detto ciò quelli della Fandango cavalcano l'onda, e ne approfittano per far uscire un manifesto (anzi, un nympho-manifesto) di Smetto quando voglio, per celebrare il successo del film ai botteghini:


La bottega dei suicidi

I "cartoni animati" non sono il mio genere preferito, ma questo film, per qualche strano motivo, mi incuriosiva. Sicuramente un po' di colpa è del mio collega spagnolo che l'anno scorso ha rotto la minchia ne parlava in continuazione; mettici l'ambientazione parigina, aggiungici un'atmosfera vagamente macabra, e alla fine ho deciso di guardarlo.
Il film inizia con il volo di un piccione sui cieli di una Parigi grigia, piovosa e cupa all'ennesima potenza. Quando l'uccello raggiunge due suoi simili sulla sommità di un lampione, li guarda e si lascia cadere nel vuoto. E se anche i piccioni decidono di suicidarsi, non c'è da stare allegri.
La folla si trascina stanca ed angosciata per le vie della città cercando di porre fine alle proprie sofferenze. Anche se suicidarsi in pubblico è punito con multe salatissime.
Ma a tutto c'è rimedio: in un vicolo ha sede la Maison Tuvache, un'azienda a conduzione famigliare gestita da Mr. Mishima (!) e dalla moglie Lucrece, aiutati dai due tristissimi figli Vincent e Marilyn. La loro Bottega dei Suicidi offre tutto il necessario per lasciare questo mondo: cappi preconfezionati, con tanto di sgabellino opzionale, veleni assortiti, funghi, spade, blocchi di cemento con catena incorporata, pistole con un unico proiettile, lamette più o meno arrugginite (se il dissanguamento non basta almeno puoi far affidamento sul tetano). Gli affari vanno a gonfie vele.
Ma.
Quando Lucrece dà alla luce il terzo figlio, Alan, succede l'impensabile: il bambino sorride. Sempre.
Quel bambino sempre allegro e sorridente destabilizza i genitori.
Passano gli anni, Vincent e Marylin sono diventati degli adolescenti tristi, ma Alan continua a sorridere. E, con un gruppo di amici, anche loro inspiegabilmente immuni alla depressione dilagante, cercheranno di cambiare le cose.
Premessa interessante, che purtroppo si perde in un finale forse un po' troppo banale e scontato.



10 feb 2014

Smetto quando voglio

Opera prima di Sidney Sibilia, trentaduenne salernitano che, assieme a Valerio Attanasio, ha curato anche la sceneggiatura del film. Nelle interviste il regista ha dichiarato che non intende lanciare nessun messaggio sociologico e che ha pensato che il suo lavoro doveva valere almeno i soldi che lo spettatore paga per il biglietto, la benzina, il parcheggio. Nel mio caso anche per la pizza dopo il film, che è ormai un'abitudine consolidata. E posso dire che a Sidney è andata bene, perché non ho nessuna intenzione di chiedergli il rimborso.
Visto giovedì allo spettacolo delle 18.10. Che ti consente di uscire dal cinema presto, andare a mangiare la pizza presto, tornare a casa (presto) e, se capita, vedere ancora qualcosa sul divano. Io ad esempio ne ho approfittato per rivedere "le idi di marzo". 



L'argomento precari e lavoro è già stato rappresentato più volte, basti pensare a "tutta la vita davanti", o "c'è chi dice no", ma Sibilia non ci fa caso e confeziona un prodotto che tratta l'argomento in maniera divertente e disincantata, con un cast interessante (oltre a mezzo Boris - Pietro Sermonti, Paolo Calabresi, Valerio Aprea) ci sono Edoardo Leo, Valeria Solarino (ma quanto è bella Valeria Solarino?), Stefano Fresi, Libero De Rienzo e Neri Marcorè, villain di turno. 
La fotografia è satura all'eccesso, cosa che all'inizio un po' ti stranisce, ma poi ti ci abitui.
Pietro ha 37 anni, è un ricercatore, precari(ssim)o alla Sapienza. Laureato in neurobiologia, è praticamente un genio nel suo campo. Per arrotondare le scarse entrate dà ripetizioni ad alcuni studenti fancazzisti che tanto non lo pagano (e lo prendono pure per il culo). 
Assistente di un professore che, millantando aderenze politiche a tutto tondo, gli fa capire che presto arriverà il contratto a tempo indeterminato, arrivato a casa si sbilancia con Giulia, la sua compagna, e, quando il contratto non arriva per questo, questo e quest'altro motivo, Pietro non ha il coraggio di dirle la verità.
Ne parla con Giorgio e Mattia, amici dai tempi dell'università, due dei migliori latinisti in circolazione, che fanno i benzinai (e litigano in latino) ma quella sera, a mettere 200€ di carburante al SUV nuovo di pacca, si ferma Maurizio, uno dei suoi studenti che non lo paga, e che (inoltre) gli ha fatto credere di essere orfano. 
Scatta l'inseguimento SUV/bicicletta, fino alla discoteca, dove Maurizio gli offre da bere un cocktail "corretto" con un paio di pastiglie. 
Quando Pietro si ripiglia - risvegliandosi nei cessi del locale con un cazzo disegnato sulla fronte - inizialmente si incazza, ma poi ha un'idea geniale. Sfruttando i suoi studi, e quelli di molti fra i suoi amici, ridotti come lui a tirare a campare accettando lavori qualsiasi, quando va bene, decide di produrre una nuova droga sintetizzando una nuova molecola, visto che, per un vuoto legislativo, finché una sostanza non è inserita nell'elenco delle sostanze proibite del Ministero della Salute, non è illegale. 
E da quel momento, visto che la nuova smart drug che realizzano è di una qualità e purezza mai viste sul mercato, le cose iniziano a girare meglio. Soldi, vestiti, party, ragazze, tutto un altro mondo.
Ma, siccome ogni medaglia ha il suo rovescio, ben presto la banda dei ricercatori dovrà fare i conti con una realtà che non avevano messo in conto. 
Ritmo serrato e cast che funziona, insomma, un esordio più che promettente.