30 gen 2015

Force Majeure (Turist)


Visto che mi è stato chiesto di parlare di questo film, che non si dica poi in giro che non accontento i miei fedeli lettori, eh?
Scherzi a parte devo ringraziare Salvatore Baingiu per avermelo chiesto, dato che quest'anno le mie cronache dal TFF hanno lasciato alquanto a desiderare.
E quindi, eccoci qua, con questo film svedese diretto da Ruben Östlund, che per me è - manco a dirlo - un emerito sconosciuto, che ha raccolto un po' di premi e nomination in giro, a partire dal premio della giuria nella sezione Un certain regard  a Cannes, per finire con la nomination come miglior film straniero all'ultima edizione dei Golden Globe, dove però ha vinto il russo Leviathan. 
A parte non capire il motivo per cui un film che originariamente si intitola "Force Majeure" debba tramutarsi in Turist nella sua versione per il mercato internazionale, che poi magari la gente rischia di confondersi con quell'obbrobrio con Johnny Depp e Angelina Jolie, non oso pensare all'eventuale titolo italiano, da un innocuo "la settimana bianca", ma poi qualcuno potrebbe pensare all'adattamento cinematografico del romanzo di Emmanuel Carrère (no, eh?) a un terribile "vacanze sulla neve", passando da "lassù sulle montagne" per  finire con "la valanga assassina". 
Ma, siccome al momento non mi pare sia prevista un'uscita italiana, direi che non è il caso di preoccuparsi. 
Se, al contrario di me, amate paesaggi alpini e vette innevate, adorerete il fantastico scenario naturale nel cuore delle Alpi francesi in cui il film è ambientato. Per la precisione si tratta della stazione sciistica di Les Arcs, situata nella Vallée de la Tarentaise, in Savoia.

Ma vediamo di arrivare al film.
Abbiamo una bella famiglia svedese, composta da moglie (Ebba) marito (Tomas) figlio (Harry) e figlia (Vera) (e qua volevo ringraziare personalmente il regista per non averci fornito l'ennesima coppia di ragazzini molesti) in vacanza nella ridente località sopra descritta. 
Mentre sullo schermo lo scorrere del tempo è scandito dai giorni che passano, la nostra famiglia perfetta fa ovviamente tutto quello che bisogna fare durante una settimana bianca: sciano, fanno foto di gruppo sulla neve, sciano, mangiano, sciano, dormono, sciano, ecc. 
Ovviamente parlo per sentito dire. L'unica settimana bianca a cui ho partecipato nella mia vita l'ho passata in camera a leggere (sette libri in sette giorni), mentre il mio fidanzato dell'epoca giustamente sciava. Mi sono rotta i coglioni in maniera fotonica ripromessa di non ripetere più l'esperienza, ma questo è un altro discorso. 
Il silenzio della montagna è rotto soltanto dalle esplosioni dei cannoni che controllano le valanghe, fino al giorno in cui, mentre stanno pranzando nella veranda del lussuoso hotel che li ospita, una di queste valanghe controllate perde un po' il controllo, e sembra che stia per abbattersi proprio sulla veranda. 
Attimi di terrore in cui il bianco copre ogni cosa e si sa, alla paura ognuno reagisce in modo diverso e imprevedibile, che sia egoismo, paura, o istinto di sopravvivenza: mentre Ebba rimane con i figli, Tomas fugge (con il cellulare. E i guanti), per ricomparire quando - passato lo spavento generale - tutto torna alla normalità.
Normalità per modo di dire, in quanto, nonostante non si sia fatto male nessuno, Ebba trova imperdonabile la reazione di Tomas, e non perderà occasione per rinfacciarglielo, mentre lui - che nega di essere scappato - non si capisce se perché convinto di non aver fatto nulla di male  o se perché tormentato dal senso di colpa, si trincera in un inspiegabile mutismo, che porta la coppia sull'orlo di una crisi in cui la codardia di Tomas innesca una reazione a catena, che, come una valanga, finisce per travolgere tutto e tutti.
















Östlund però riesce a trattare l'argomento, che è serio, con una squisita leggerezza, e, nonostante si assista al progressivo disfacimento degli equilibri familiari, riesce a stemperare il dramma che sembra sempre in agguato, con momenti di inaspettata e pungente ironia, in cui la risata quando arriva, ha un effetto davvero liberatorio.


29 gen 2015

The guest

"Vado a vestirmi..."
"Peccato."
Proseguiamo con i recuperi.
Anche questo film, diretto da Adam Wingard, di cui non ho visto nessuno dei suoi precedenti lavori, è passato al Torino Film Festival, ma non sono riuscita a incastrarlo nella mia personalissima programmazione, avendo scelto di vedere, al suo posto, Force Majeure (e/o Turist, film svedese di cui non ho ancora parlato, e, se lascio passare ancora un po' di tempo, finisce pure che me lo dimentico...) 
The guest, dicevamo.
Che, in soldoni, non è che racconti chissà quale storia, ma alla fine avvince, convince e diverte, e quando arrivi alla fine sei lì che stai per dire... niente, perché Anna ti toglie le parole di bocca, pronunciando la frase che stavi per dire tu, magari non proprio in inglese, ma insomma, il senso è proprio quello.



Un bel giorno (dove "bel" è solo un modo di dire) qualcuno suona alla porta di casa Peterson.
La signora Peterson (♪ ♫ ♪ ♫ God bless you please, Mrs. Peterson, heaven holds a place for those who pray hey, hey, hey.. ♪ ♫ ♪ ♫.) va ad aprire e si trova davanti un tronco di pino gran pezzo di manzo grazioso giovanotto che si presenta come David Collins, compagno d'armi e grande amico del povero figlio Caleb, morto in missione mentre erano in Iraq (o Afghanistan, fa lo stesso) a cui aveva promesso che si sarebbe preso cura della suo famiglia. La donna, ancora affranta dal dolore per il recente lutto lo fa entrare in casa, offrendosi di ospitarlo finché si tratterrà nei paraggi.
Al rientro dal lavoro Mr. Peterson è quanto meno perplesso, preoccupato per il fatto che il giovane potrebbe essere affetto da PTSD, ma, nel giro di un paio di giorni, i dubbi svaniscono, e David viene accettato da tutta la famiglia, a partire da Luke, il figlio minore della coppia, ragazzino che a scuola è continuamente vessato dai bulli, per finire con Anna, la figlia, per motivi - come si può vedere dalla prima immagine - a noi totalmente ignoti. Vero fanciulle?


Ma quando in paese iniziano ad avvenire episodi più o meno violenti, Anna inizia a nutrire qualche sospetto nei confronti di David, scoprendo che il ragazzo nasconde un segreto.
E da quel momento, complice una colonna sonora di tutto rispetto ed una fotografia che ci riporta di filato negli anni '80, si compie la metamorfosi di David Collins, che, dal comportamento calmo e la voce tranquilla si trasforma in un implacabile angelo sterminatore, roba che al confronto Attila sembra una giovane marmotta soltanto un po' dispettosa.
E anche il film, che fino a quel momento poteva sembrare un thriller con una minima parvenza horror, diventa - complici i preparativi per la festa di Hallowen - uno slasher dal sapore vintage, in cui, malgrado tutto, complici alcune scene al limite dell'esilarante (una per tutti lui ai piedi della finta lapide) il cattivo non riesce nemmeno a starti sul cazzo.
E quindi, viva l'ospite.
Sperando che non venga mai a suonare alla nostra porta.




28 gen 2015

Difret


Il fatto che sulle locandine campeggi il nome di Angelina Jolie potrebbe fare, per molti, da deterrente. A me la Jolie piace dai tempi in cui era una "cattiva ragazza" e se ne andava in giro sfoggiando come ciondolo di una collana un’ampolla con il sangue di Billy Bob Thornton, ma, diciamo che, in linea di massima, chi produce cosa tende a non influenzare il mio giudizio. Questo almeno finché non vedrò campeggiare il nome di mario borghezio su una qualche locandina. E no, l'uso del minuscolo non è affatto casuale. 
In ogni caso il film, diretto da Zereseney Berhane Mehari, ha fatto il giro di tutti i festival dell'universo mondo, è stato premiato sia al Sundance sia a Berlino, e, finalmente, è arrivato anche da noi. 
E' un film girato con pochi mezzi, e si vede, la regia è essenziale, quasi elementare, ma per film del genere non è necessario ricorrere agli effetti speciali.
La storia che ci viene raccontata, tanto per cambiare si basa su fatti reali, avvenuti in un villaggio rurale a tre ore di macchina da Addis Abeba, ed è quella di Hirut, che nel 1996, quando aveva appena 14 anni, un giorno, tornando a casa dopo la scuola, viene circondata e rapita da un gruppo di uomini a cavallo. Questa antica pratica tradizionale, che consente all'uomo di rapire e violentare una donna (o una ragazzina, che differenza fa?) al fine di metterla incinta e farne sua moglie, si chiama telefa, e, nonostante una legge in vigore dal 1957 lo ritenga un crimine punibile con tre anni di reclusione, se il rapitore sposasse la sua vittima non verrebbe nemmeno perseguito a livello penale. 
Diverso il discorso per la donna, che, rifiutando il matrimonio, verrebbe considerata "svergognata", e, non essendo più vergine, nessun altro uomo accetterebbe di sposarla. Anche se, sposandosi, andrebbe incontro ad una vita fatta di violenze e soprusi (ma che meraviglia, eh?)
Ma questo non succede ad Hirut, che, approfittando di un momento di distrazione dei suoi aguzzini, riesce a fuggire e, per difendersi, spara al suo violentatore, uccidendolo. 
Al posto dei 92 minuti di applausi, Hirut viene arrestata, e, grazie ad un sistema legislativo poco incline a contrastare le antiche tradizioni rurali probabilmente condannata a morte. Ma la notizia dell'arresto di una ragazzina di 14 anni arriva in città, dove vive l'avvocato Meaza Ashenafi, a capo di un'associazione di donne avvocato, che si batte per i difendere i diritti dei più deboli, e decide quindi, contro tutto e contro tutti, di difenderla, cercando di dimostrare con tutti i mezzi, che Hirut ha agito per legittima difesa. 
Il film ci mostra i drammi e le contraddizioni tra la modernità della vita in città e l'osservanza delle tradizioni che ancora esiste nei villaggi, dove il consiglio degli anziani, riunito sotto un albero, decide, incurante della Legge, il destino di Hirut, 

La battaglia di Meaza Ashenafi e il coraggio di Hirut (difret in amarico significa “coraggio”) hanno fatto in modo che rapimento e stupro possono ora essere puniti con una condanna fino a 15 anni di reclusione, anche se ancora oggi non sempre le leggi vengono applicate, siccome la tradizione, nonostante tutto, è ancora profondamente radicata. 
La stessa Hirut ne è in qualche modo vittima, in quanto non ha più potuto fare ritorno a casa sua, perchè la famiglia dell'uomo che ha ucciso vuole ancora vendicarsi. 

26 gen 2015

The theory of everything

Finché c'è vita c'è speranza, si stava meglio quando si stava peggio, una volta qui era tutta campagna, e mi fermo qui, anche se con le banalità potrei andare avanti per ore.
Ci sono quei film che "a pelle" non ti ispirano nemmeno un po'. Molti di questi, fidandoti del tuo istinto, li eviti. Altri, invece, sai che prima o poi, volente o nolente, li vedrai. 
E' il caso di questo "The theory of everything", che, passato fuori concorso all'ultimo TFF ho bellamente snobbato, un po' per la certezza che "tanto poi esce", un po' perché mi sembrava melenso a partire dalla locandina, un po' perché, diciamolo subito, in modo che si capisca la brutta (e ignorantissima) persona che sono, di Stephen Hawking non mi è mai fregato un granché. Fondamentalmente perché la  materia da lui trattata mi è totalmente ostica, in quanto, riporto da wikipedia:"Tra le sue idee più importanti vi sono la radiazione di Hawking, la teoria cosmologica sull'inizio senza confini dell'universo (denominata stato di Hartle-Hawking), la termodinamica dei buchi neri e la partecipazione all'elaborazione di numerose teorie fisiche e astronomiche con altri scienziati, come il multiverso, la formazione ed evoluzione galattica e l'inflazione cosmica, tutte teorie da lui spiegate con chiarezza e semplicità anche in numerosi testi di divulgazione scientifica per il grande pubblico."
Quindi, assodato che la divulgazione scientifica non fa per me, che i precedenti lavori diretti da James Marsh da me visti (solo due, a dire il vero, The King e Shadow dancer) non mi abbiano esattamente entusiasmato, mi sono approcciata alla visione di questo film (inspiegabilmente candidato agli Oscar) senza particolari entusiasmi e/o aspettative.
E quindi?

E quindi niente.
La pellicola è l'adattamento cinematografico di "Travelling to infinity: my life with Stephen", scritto da Jane Wilde, che è stata sposata con Hawking per 25 anni, fino al 1991. E, trattandosi appunto della SUA vita con Stephen, è abbastanza chiaro che il film non possa essere un vero e proprio biopic sulla vita dell'uomo, ma, più che altro, sulla dimensione familiare di Hawking marito e padre, oltre che brillante scenziato.
Detto ciò, il film ripercorre, in un'atmosfera forse un po' troppo da mulino bianco, la vita della coppia, dal loro incontro a Cambridge, dove entrambi studiano, passando per il momento in cui al ragazzo viene diagnosticata la malattia, in cui gli fanno intendere che la sua aspettativa di vita è di soli due anni.
Jane decide di restagli accanto con ostinata caparbietà, e, grazie al suo amore e alla sua dedizione, Stephen prosegue i suoi studi, combattendo la sua lotta contro il tempo e contro quella malattia, che tempo sembra non volergliene lasciare.
Alla fine ci troviamo di fronte ad un film che è, essenzialmente, una storia d'amore, più che la storia di un genio. Anzi, è la storia di una donna che per venticinque anni, scegliendo di condividere la sua vita con un uomo alle prese con una grave malattia degenerativa, si dev'essere fatta un culo mica da ridere.
Bravissimo Eddie Redmayne nella sua interpretazione, e, se per lui la candidatura all'oscar è strameritata, quella a Felicity Jones che interpreta Jane mi sembra un po' tirata per i capelli.
Il film può piacere o non piacere, se vi aspettate di vedere "Stephen Hawking, la vita le opere e sti gran cazzi" sicuramente ne restereste delusi.
Altrimenti vi troverete davanti ad un film indubbiamente ben interpretato.
Che a me, per inciso, non ha fatto impazzire.


23 gen 2015

John Wick
(dopo il babadook, il babayaga)

"John Wick non era l’uomo nero. 
Era quello che chiamavi per 
uccidere il fottuto uomo nero."


L'ho incontrato per la prima volta ad ottobre, sotto forma di enorme manifesto nella metropolitana di New York, e ho pensato "oh!", molto prima della pubblicità della nuova Opel Corsa, per dire. 
Perché in quel manifesto c'era Keanu Reeves in tutto il suo splendore, di nero vestito come ai tempi di Matrix, ma con la maturità degli anni che - in casi come il suo - sono un valore aggiunto.
Quindi voglio ringraziare, nell'ordine: Eva Longoria per aver prodotto il film, Keanu Reeves per il semplice fatto di esistere, Willem Dafoe perchè sì, le mie amiche che quando ho proposto loro John Wick come film del giovedì hanno accettato immediatamente senza riserva alcuna, la mia mamma per avermi fatto così bella e il fatto che allo spettacolo delle 18.50 la sala non fosse piena di tamarri mannari. 


Se all'uscita qualcuno mi avesse chiesto "Ti è piaciuto?" la mia risposta sarebbe stata "Minchia, sì!", perché la fine cinefila che alberga in me con film del genere non dico che goda, ma insomma, ci va molto vicino.
Ma andiamo per ordine.
Di cosa parla John Wick? 
Ma soprattutto, chi è John Wick?
All'inizio (cioè, non proprio all'inizio, diciamo la scena successiva) lo vediamo aggirarsi in una casa naturalmente bellissima, dove bellissima è anche un po' riduttivo, e, grazie ad una manciata di flashback scopriamo che aveva una moglie (bellissima anche lei) che, in seguito a qualche non meglio precisata malattia, muore. Lo vediamo all'ospedale dire al medico che può staccare la spina - perché là si può e qua no, ma questa è un altra storia - lo vediamo al cimitero, con una splendida inquadratura dall'alto che mostra solo ombrelli neri e una bara, lo vediamo annientato dal dolore, e poi lo vediamo andare ad aprire alla porta, quando suonano, e trovarsi di fronte un corriere che gli consegna un cucciolo, ultimo regalo della moglie che, nella lettera che accompagna il dono gli dice "che ha bisogno di qualcosa da amare, e che no, le automobili non valgono".
John Wick, nonostante non sia molto credibile, si commuove tantissimo, e prende in braccio il cane, anzi, visto che si chiama Daisy direi la cana, che, naturalmente ha gli occhioni dolcissimi e lui si intenerisce come un vitellino. 
Che tu sei lì che guardi il povero cane, perchè già sai, e pensi, si vabbè, dai, su, diamoci da fare. 
E finalmente John Wick esce, sulla sua Mustang del 69, e va a fare il pieno. Con la cana.



E quando al distributore arriva il macchinone con la musica unz.unz.unz mentre il nostro eroe sta facendo benzina tu capisci che ci siamo.
Dal macchinone con la musica unz.unz.unz scendono tre cazzoni russi, e quello che sembra più giovane, con la faccia un po' così, che sembra una versione psicotica di Ewan McGregor si avvicina a JW e dopo avergli fatto i complimenti per la macchina gli chiede quanto vuole. 
John risponde che non è in vendita, ringrazia e fa per andarsene, ma il giovane russo lo insulta nella sua lingua. John, senza fare un plissé gli risponde. 
In russo. 
E qua, se il giovanotto non fosse un emerito coglione, dovrebbe farsi venire qualche piccolo dubbio.
E invece.
Nel cuore della notte la cana si sveglia abbaiando, John si alza, e in casa sua ci sono, pensa un po', i tre cazzoni russi, che lo percuotono come uno zerbino, gli ammazzano il cane e gli fottono l'auto. 
E finalmente si aprono le danze.


Scopriamo così che John Wick non è semplicemente un vedovo inconsolabile a cui hanno appena ammazzato il cane ultimo regalo di povera moglie morta, ma ha un passato di implacabile killer socio in affari di Viggo Tarasof, che, siccome il mondo è piccolo, altri non è che il padre del giovane cazzone russo. Che quando scopre non tanto cosa ha fatto il figlio, ma A CHI l'ha fatto, inizia a cagarsi in mano, perché al confronto di John Wick il Chris Kyle di American Sniper sembra un inoffensivo incrocio tra Bambi ed un chierichetto mormone.
Tarasof per parare il culo al figlio mette una taglia sulla testa di John Wick e da questo momento in poi il film entra in una New York parallela, che sembra invisibile ai "comuni mortali" dove esistono regole precise e incontrovertibili, a cominciare da quel "fatti i cazzi tuoi" tanto cara a Razzi e che l'agente della NYPD Jim si capisce che ha imparato subito (scena fantastica), per finire con il rigido protocollo dell'Hotel Continental, dove gli ospiti sono accolti con discrezione e trattati con la massima cura, riservatezza e disponibilità.


E mentre John - che nonostante abbia provato ad uscire da quel mondo, finisce per tornare a farne parte integrante (e devastante) - si trasforma in una macchina vendicatrice, che io dopo la prima dozzina di morti, eliminati credo in 4'27" ho perso il conto, il film procede a ritmo serratissimo, dove i dialoghi - peraltro già rarefatti - lasciano il posto all'azione pura, fra sparatorie, inseguimenti, lotte corpo a corpo, esplosioni e tutto il corollario indispensabile, in cui, oltre ad un cast ben assortito (Keanu Reeves a parte, abbiamo Willem Dafoe, John Leguizamo, Michael Nyqvist, solo per citarne alcuni) tutto scorre perfettamente, grazie anche ad una fotografia notevole, dove New York fa sempre la sua sporca figura, e una colonna sonora incisiva il giusto. 
Cos'altro aggiungere? Che, alla fine del film viene spontaneo chiedersi quando uscirà John Wick 2, perché di film così, che vanno presi con intelligente e disincantata leggerezza, ce ne vorrebbe almeno uno al mese. 


Curiosità: il film, costato 20milioni di dollari, ne ha incassati - solo in America - già più del doppio. 
Se invece durante il vostro prossimo soggiorno a New York vi venisse voglia di pernottare al Continental, sappiate che - purtroppo - non esiste. 
Esiste però lo splendido edificio, che ricorda in piccolo il Flat Iron Building: si trova al  56 di Beaver Street (2 South William Street), in Lower Manhattan, e, visto che ospita il Delmonico's Restaurant, non ci potrete dormire, ma ci potete mangiare. 

21 gen 2015

Exodus


Siccome io non ce la posso fare, lascio la parola alla Tiz, che si è sacrificata per noi (per me senza dubbio) andando a vedere l'ultimo capolavoro di Ridley Scott, che, se volete, è disponibile anche in 3D.
Per piagarvi meglio. 

Ciao, sono il compagno Mosè

Ora, che registi che ho molto amato (Ridley Scott e Darren Aronofsy, per esempio) si buttino sul biblico è già fastidioso.
Che io mi sia anche dovuta sorbire Exodus lo è pure di più, ma ho, per farla breve, perso una scommessa.
Sono dunque andata a vederlo con l'allegrezza tipica di colei che sta andando al patibolo, borbottando contro la sorte ria e maledicendo questo trend di pessimo gusto.
Ora, non sarò certo io a difendere questo film, ma, alla fine, non sono morta. Non mi sono annoiata e non ho sbuffato più del lecito, l'ho seguito con educata attenzione, e ho persino apprezzato un paio di cose, tra cui l'interpretazione di Christian Bale, il quale, con gli invasati, ha proprio un'affinità elettiva.
La storia è presto detta e piuttosto nota: il faraone Seti, un John Turturro con ettolitri di eyeliner, disprezza suo figlio Ramses e apprezza il trovatello Mosè, il che, of course, non aiuta i rapporti tra i due, con Mosè che fa il figo e Ramses che rosica neanche tanto velatamente. 
Assieme combattono gli Ittiti, Mosè salva Ramses, e nel frattempo sappiamo che 400.000 ebrei sono tenuti come schiavi per la costruzione del regno dei faraoni, per cui tutti li disprezzano, tranne Mosè che è un egiziano buonino buonino.
Come Seti muore la mamma di Ramses fa esiliare Mosè, al quale i saggi ebrei hanno detto la sua vera storia, e di considerarlo l'eletto che salverà il loro popolo.
Mosè vaga per il deserto, arriva ad un'oasi popolato da fotomodelle e si innamora di una di loro, quindi diventa un pacifico pastore con prole (un prolo).
Durante un duro trekking con tratti di sfasciume (sul monte sul quale non si deve salire) viene travolto da una valanga, batte la testa e inizia ad avere le visioni, (l'escamotage della botta in testa l'ho trovato apprezzabile, in quanto miscredente, e chi lo osserva lo vede parlare da solo con il bambino -dio che gli appare, a riprova di un delirio che si svolge tra i suoi neuroni, ma posso capire perché non sia piaciuto agli integralisti)
Poi arrivano le piaghe (ma c'erano coccodrilli tra esse? Qua ci sono!)*, la fuga dei 400.000, lo tsunami nel Mar Rosso, la sconfitta dell'antipatico ma realistico Ramses e il ritorno a casa dalla fotomodella che non ha messo su né un chilo né una ruga. 
Effetti speciali niente male, la trama scorre, non c'è umorismo né volontario né involontario, alla fine lo si deve prendere per quello che è: un supereroe biblico!


*Fonti autorevoli riportano le dieci piaghe d'egitto in questo modo:
- Tramutazione dell'acqua in sangue (Es7,14-25)
- Invasione di rane dai corsi d'acqua (Es7,26-8,11)
- Invasione di zanzare (Es8,12-15)
- Invasione di mosche (Es8,16-28)
- Morìa del bestiame (Es9,1-7)
- Ulcere su animali e umani (Es9,8-12)
- Pioggia di fuoco e ghiaccio (Grandine) (Es9,13-35)
- Invasione di cavallette/locuste (Es10,1-20)
- Tenebre (Es10,21-29)
- Morte dei primogeniti maschi (Es12,29-30)
quindi, cara Tiz, direi che i coccodrilli non erano contemplati. Magari si trattava di locustoni OGM?

20 gen 2015

Stupdt

Ieri sera io e la Tiz ci siamo spinte alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo per la presentazione del libro "Stupdt", di Arrigo Cipriani.
Sì, proprio il Cipriani dell'Harry's Bar di Venezia, locale tanto caro a Ernest Hemingway. 
Intanto perché ci piaceva il titolo, poi perché a dialogare con l'autore c'era Luca Bianchini, e poi perché alla conclusione della presentazione ti offrivano pure un bellini, famoso cocktail inventato proprio da Giuseppe Cipriani, padre di Arrigo, nello storico locale veneziano (anche se ovviamente abbiamo dovuto rinunciare alla polpa di pesca frullata, che, come ben sapete, non si può avere tutto).
In ogni modo la presentazione è stata leggera e divertente, con letture di brani tratti dal libro seguiti dalle domande di Bianchini a cui Cipriani rispondeva senza battere ciglio. Arzillo signore ottantenne, che, fra le altre cose, è stato istruttore di karate per 25 anni. ancora oggi tiene corsi (non di karate) a  Ca' Foscari, e si permette di ironizzare sul fatto che gli anni che gli restano da vivere ormai si possono contare sulle dita di una mano.
Mentre si faceva un vanto del fatto che il suo non fosse un locale "stellato" a noi è sembrato che invece gli rodesse un po' il culo, ma magari siamo noi che siamo maligne, eh?
Ha spiegato la differenza tra lusso e snobismo, raccontato aneddoti sui Savoia dopo essersi assicurato che non ce ne fossero in sala e poi, verso la fine, ha lasciato che il pubblico gli rivolgesse qualche domanda.
Quando scatta il momento del "Q & A" noi sappiamo per esperienza che da lì a poco ascolteremo domande che sembrano uscire da un episodio di ai confini della realtà.
Ricordo ancora, dopo la visione de "La Trattativa", con Sabina Guzzanti presente in sala, un tizio che iniziò a tempestarla di domande su suo padre, che - qualunque sia l'opinione che uno possa avere su Paolo Guzzanti - erano assolutamente fuori luogo e fuori contesto.
E quindi.
Prende la parola una signora agée, che, con forte accento sabaudo si rivolge al Cipriani con queste parole: "Vado spesso al ristorante, e ordino sempre il pesce alla ligure. Ma perché i ristoratori non ci mettono più l'aglio? Non è più di moda?"
Ma signora cara, che domanda è? Ma soprattutto, che ne può sapere il povero Arrigo?
E' poi la volta di un'altra signora che chiede "Perché nel menu dei ristoranti non c'è mai la frutta cotta?" No, ma davvero? Tu vai al ristorante e a fine pranzo vuoi la frutta cotta? Ma vero vero me lo stai dicendo? Infatti Cipriani le ha risposto, con molta più diplomazia di quella che avrei usato io, che probabilmente non c'era abbastanza richiesta.
Torna alla carica la signora che non trova l'aglio nel pesce alla ligure: "il professor Veronesi ha detto che la carne fa male. E' vero?"
Che è come se io domandassi al mio meccanico un consiglio su cosa dar da mangiare al mio gatto.

19 gen 2015

Hungry Hearts

Peccato che il titolo "Le conseguenze dell'amore" sia stato già usato nel 2004 da Paolo Sorrentino, perché altrimenti Saverio Costanzo, che nello stesso anno si faceva conoscere al grande pubblico con il suo primo lungometraggio, "Private" (vincitore del Pardo d'Oro al festival di Locarno), avrebbe potuto farci (più di) un pensierino. 
Peccato (per me, invece) aver visto il film nella sua versione doppiata - anche abbastanza malamente, se posso permettermi - perché sicuramente in v.o. l'avrei apprezzato di più, e avrebbe senz'altro reso maggiormente l'idea di sradicamento e solitudine di Mina, italiana a New York, a partire dal dialogo "al rallentatore" con la suocera durante il pranzo di nozze.
Ma andiamo per ordine.
Mina e Jude si conoscono praticamente per forza nel momento in cui si ritrovano bloccati nel bagno di un ristorante cinese. Li ritroviamo, innamorati e conviventi, qualche tempo dopo, non ci è dato sapere quanto, né ci importa, alla fine. 
Dopo aver scoperto che da lì ad un paio di mesi lei verrà trasferita per lavoro (non ci è dato sapere dove, né ci importa, alla fine) scopre di essere incinta.
Matrimonio, festa di nozze sulla spiaggia di Coney Island, e Mina inizia a sognare un cacciatore che ammazza un cervo (a Coney Island?) e sparisce nel buio. Questo sogno la condiziona, ma Jude la convince che non è nulla. Nel frattempo, ignorando il consiglio di ogni nonna dell'universo mondo "sei incinta? devi mangiare per due!", lei inizia a non mangiare quasi nulla, e, come se non bastasse, una cartomante le predice che avrà un bambino indaco
Arriviamo alla data del parto in cui Mina, che avrà rifiutato ogni accertamento clinico durante la gravidanza - viene sottoposta, nonostante cerchi di opporsi in ogni modo, a parto cesareo. 
Passano i mesi e la donna, che ha sviluppato un amore assoluto e totale per quel figlio, cerca di proteggerlo da ogni possibile contaminazione esterna, evitando persino di portarlo fuori, perché quel figlio è tanto speciale quanto puro, e, per questo motivo, nulla del mondo "là fuori" deve venire in contatto con lui. 
Jude inizialmente asseconda Mina, convinto dalle parole della donna che sa cosa è bene per suo figlio, ma, preoccupato per un'incessante febbre del bambino, lo porta di nascosto da un medico, dove scopre che la febbre è l'ultimo dei problemi, in quanto il bambino è malnutrito, non cresce e questo potrebbe provocargli danni futuri. 
Jude è combattuto. Ama Mina, ma ama anche quel bambino, che Mina, a sua volta, ama di un amore smisurato, tanto da sembrare malato.  
Le cose peggiorano, fino al momento in cui il circolo vizioso di questo amore che più che "affamare" sembra prendere a morsi i protagonisti  di questa vicenda, in qualche modo, si chiude.




Sono entrata in sala temendo che avrei patito come l'incenso in chiesa il personaggio di Mina, che rasenta il fanatismo alimentare/ambientale/emotivo. Ovviamente l'ho detestata, ma meno di quanto avrei creduto. 
Bravissima, come sempre, Alba Rohrwacher nel rappresentare (anche fisicamente) lo struggimento psicofisico di una madre annientata dal troppo amore, bravo e "particolare" Adam Driver, in certe inquadrature affascinante e in altre orribile, e non mi riferisco alle riprese "grandangolari" che ad un certo punto sembrano voler entrare veramente all'interno dei protagonisti. 
Incisiva la colonna sonora di Nicola Piovani. 

16 gen 2015

Il sale della terra

Tranquilli, non mi sto cimentando nell'esegesi del testo di Ligabue. 
Volevo parlarvi del documentario realizzato da Wim Wenders su (e con) Sebastião Salgado, che volevo vedere già da qualche tempo, in quanto apprezzo moltissimo il lavoro del fotografo brasiliano. 
Il fatto che, a distanza di più di due mesi il film fosse ancora in sala mi ha fatto pensare che probabilmente ne valeva davvero la pena. La bionda mi ha subito riportato alla realtà ricordandomi che anche Romance, nel lontano 1999, rimase in sala per tempo immemore. Va a sapere.
In ogni caso il documentario è candidato ai prossimi Oscar nella categoria miglior... documentario, appunto. 
Wim Wenders ama il lavoro di Salgado fin dai tempi del suo reportage nelle miniere d'oro di Serra Pelada, in Brasile. Guardando quelle persone si ha l'impressione di vedere un immenso formicaio umano.


Il documentario parte da queste incredibili immagini e con lo stesso Salgado che racconta in prima persona, veniamo catapultati nel suo mondo, da quando, interrotti gli studi di economia, lascia il Brasile - durante la dittatura - e si trasferisce in Francia con la moglie Leila e il figlio Juliano, che ha contribuito alla realizzazione del documentario, con le riprese in Antartide e i vari filmati di repertorio, che si alternano agli scatti che il fotografo brasiliano ha realizzato in giro per il mondo, documentando le sue infinite bellezze, ma anche i suoi innumerevoli orrori, dalla carestia in Etiopia al genocidio in Ruanda fino alla guerra dei Balcani.
Immagini che fanno accapponare la pelle per la loro cruda e drammatica intensità, al punto che lo stesso Salgado, per un periodo di tempo, non è più riuscito a fotografare l'orrore generato dall'uomo nei confronti dell'uomo, dedicandosi a progetti riguardanti la natura, attraverso un viaggio nei cinque continenti che documenta la rara bellezza del nostro pianeta, e mediante la riqualificazione della foresta equatoriale nello stato di Minas Gerais in Brasile, da cui Salgado proviene.
Una testimonianza affascinante e terribile al tempo stesso.





15 gen 2015

Le nomination(s)

Abbiamo l'elenco di tutti i titoli che, il prossimo 22 febbraio, nel solito Dolby Theatre di Los Angeles, cercheranno di portarsi a casa una (o più) statuette.
Purtroppo, a differenza dello scorso anno, non arrivo preparata, in quanto mi mancano ancora un bel po' di titoli per completare almeno la categoria più importante, ovvero quella per il miglior film. 
Questo ovviamente non mi impedirà di azzardare i miei inutilissimi pronostici, di cui nessuno di voi sentiva la mancanza.

Miglior film:

Birdman 
Boyhood 
Selma 
La teoria del tutto 
Purtroppo 4 su 8 sono davvero pochini per poter esprimere un'opinione. E, per quanto il mio personalissimo oscar vada a Whiplash, che ho davvero adorato, credo che abbiano buone probabilità di portarsi a casa la statuetta o Boyhood o La teoria del tutto. Che tenterò di recuperare prima della fatidica data. 

Miglior regia 

Alejandro G. Inarritu per Birdman 
Richard Linklater per Boyhood 
Bennett Miller per Foxcatcher 
Wes Anderson per Grand Budapest Hotel 
Morten Tydlum per The Imitation Game
Non so assolutamente nulla di Foxcatcher, ma azzardo la vittoria di Linklater. Sulla fiducia. E perchè l'idea di un film lungo 12 anni è senz'altro interessante. 

Miglior attore protagonista 

Steve Carell per Foxcatcher 
Bradley Cooper per American Sniper 
Benedict Cumberbatch per The Imitation Game 
Michael Keaton per Birdman 
Eddie Redmayne per La teoria del tutto
Ma davvero Steve Carell? A questo punto questo Foxcatcher inizia ad incuriosirmi.
Detto ciò, pare che Redmayne sia bravissimo. Michael Keaton non l'ho mai potuto sopportare, Bradley Cooper davvero, ma anche no, quindi il mio oscar è per Benedict Cumberbatch. Ma sono pronta a ricredermi appena riuscirò a vedere La teoria del tutto.

Miglior attrice protagonista 

Marion Cotillard per Due giorni, una notte 
Felicity Jones per La teoria del tutto 
Julianne Moore per Still Alice
Rosamund Pike per L'amore bugiardo
Reese Witherspoon per Wild
Avendo visto solo due film scelgo di conseguenza. E, avendo detestato quella psicopatica succhiacazzi di Amy, il mio Oscar è tutto per Julianne Moore,  facile, no?

Miglior attore non protagonista 

Robert Duvall per The Judge
Ethan Hawke per Boyhood 
Edward Norton per Birdman 
Mark Ruffalo per Foxcatcher 
J.K Simmons per Whiplash 
A costo di sembrare monotona, J.K. Simmons. Senza se e senza ma. 

Miglior attrice non protagonista 

Patricia Arquette per Boyhood 
Laura Dern per Wild 
Keira Knightley per The Imitation Game 
Emma Stone per Birdman 
Meryl Streep per Into the Woods
Ma la vogliamo smettere di candidare Meryl Streep almeno una volta l'anno? E basta, dai! Scherzi a parte, anche di Into the woods non so nulla, però, visto che mi è simpatica, dico Patricia Arquette.

Miglior sceneggiatura originale 

Birdman 
Boyhood 
Foxcatcher 
Grand Budapest Hotel 
Lo sciacallo - Nightcrawler 
E non vogliamo dare un premio a Birdman? Che potrebbe vincere l'oscar "zerotituli" per il maggior numero di nomination e raccolte un po' ovunque e... basta?

Miglior sceneggiatura non originale 
American Sniper 
The Imitation Game 
Vizio di forma 
La teoria del tutto 
Whiplash 
Dai, dopo il premio a J.K.Simmons, che se non vince non gioco più, voglio anche l'oscar per la sceneggiatura non originale a Whiplash. 

Miglior film straniero 

Ida (Polonia) 
Leviathan (Russia) 
Tangerines (Estonia) 
Timbuktu (Mauritania) 
Storie Pazzesche (Argentina) 
Ho visto solo Ida (e ho in previsione la visione dell'estone, ma chissà quando. Quindi, Ida, per forza. 

Miglior film d'animazione 

Big Hero 6 
The Boxtrolls 
Dragontrainer 2 
Song of the Sea 
The Tale of the Princess Kaguya 
Siccome non guardo film d'animazione, dico Big Hero 6, perchè lui è tanto carino. 

Miglior fotografia 
Birdman 
Grand Budapest Hotel 
Mr. Turner 
Unbroken
La fotografia di Lukasz Zal è splendida, e lo dissi già in tempi non sospetti. Quindi Ida, again. 
Poi ci sono tutta una serie di categorie di cui non capisco una beata fonchia, quindi non le prenderò in considerazione (perchè invece, di quelle che ho appena citato, sono espertissima, si sa).
Veniamo quindi al 

Miglior documentario 

Citizenfour 
Last Days in Vietnam 
The Salt of the Earth 
Virunga
In questa categoria ho visto anche "The Salt of the Earth", di cui non ho ancora avuto modo di parlare, e che, attraverso le immagini di Sebastião Salgado mi ha procurato brividi per almeno metà visione. Ma Finding Vivian Maier mi ha fatto conoscere un personaggio bizzarro e interessante. 


13 gen 2015

Whiplash

Visto che J.K. Simmons ha (meritatamente) appena vinto il Golden Globe nella categoria "Best Supporting Actor", a distanza di quasi due mesi dalla sua visione, credo sia giunto il momento per parlare di Whiplash, visto all'ultimo Torino Film Festival solo grazie all'incessante passaparola e ai giudizi positivi ascoltati fra una coda e l'altra. 
Già, perché inizialmente, leggendo la sinossi riportata sul programma, che diceva "Andrew, giovane, talentuoso e ambizioso batterista jazz..." alla parola "jazz" mi sono fermata, che - come ho ripetuto più volte - a me il jazz dopo cinque minuti di ascolto scatena inspiegabili istinti omicidi.
Ma siccome da queste parti è sempre la curiosità a vincere, alla fine sono riuscita a incastrarlo fra le varie visioni della settimana festivaliera e mi sono goduta questo film, diretto da Damien Chazelle, di cui, sempre al TFF, cinque anni fa avevo visto "Guy and Madeline on a Park Bench", che parlava sempre di jazz e che all'epoca mi aveva annoiato in discreta misura. Per la cronaca, anche il prossimo film di Chazelle, La La Land, parlerà di jazz, ma questa volta con un pianista, che viene dopo il trombettista e il batterista. Quindi al momento manca il film sul sassofonista, ma mai disperare. 


Siamo a New York e il giovane Andrew, che frequenta una delle più prestigiose scuole di musica della città, è intenzionato a diventare un batterista di fama mondiale. 
Mentre si esercita ripetutamente, a casa e a scuola, viene notato dal celebre direttore d'orchestra nonché terribile professor Terence Fletcher, interpretato dal fantastico J.K. Simmons, uomo per cui l'espressione "sudare sangue" non è un semplice modo di dire, e che, convocato Andrew nella sua classe composta esclusivamente da futuri talenti, lo spronerà a fare sempre meglio e ad andare oltre i suoi limiti, perchè in fondo, come recita un poster appeso nella camera del ragazzo, "se non hai talento finirai per suonare in una rockband".
Andrew è determinato, e per raggiungere il suo scopo è disposto a sacrificare anche la sua vita privata, infatti non esiterà a lasciare la fidanzata, affinché, in futuro, non gli sia di ostacolo. 
Ma l'essere stato ammesso nella classe di Fletcher non significa necessariamente la permanenza assicurata nella stessa, perché l'uomo, che vive in un mondo in cui la presenza del "politicamente corretto" non è minimamente contemplata - e le sue innumerevoli sfuriate durante le lezioni ne sono una prova - pretende il massimo da ognuno dei suoi studenti, e per ottenerlo li sottopone ad un gioco al massacro, sia fisico sia psicologico dove non sono ammessi cedimenti, né debolezze. 
Ha inizio così una vera e propria lotta fra l'allievo e l'insegnante, dove alla tenacia e all'ambizione di Andrew si contrappongono la crudeltà e il disincantato cinismo dello spietato Fletcher. 
Un film che finisce inevitabilmente per appassionare e coinvolgere anche chi, come la sottoscritta, non ama particolarmente il jazz, il che è tutto dire, e a cui si perdona anche il finale forse un po' piacione, ma che non guasta assolutamente.
Lo dico? Ovvio che lo dico: da vedere in lingua originale, per non perdersi nemmeno uno dei fantastici insulti di Fletcher.
L'ho detto.
Al momento non mi risulta ci sia una data di uscita italiana.
Non so perché, ma non mi stupisco. 


12 gen 2015

Big eyes

Fra i ricordi della mia infanzia, prima dell'avvento dell'avvinazzato di Teomondo Scrofalo di driveiniana memoria, ci sono i quadretti di questi bimbetti dagli occhioni esageratamente grandi e lacrimosi. Se ne vedevano un po' ovunque, esattamente come si vede nel film.
Adesso, grazie a Tim Burton, scopro chi è la colpevole l'artefice di tanta bruttezza: Margaret Keane, quindi il mio massimo e costante rispetto va al sempre mitico Terence Stamp, che nel film interpreta il critico d'arte John Canaday, l'unico a dire che i quadri della Keane erano di una bruttezza imbarazzante.
(possibile l'inutile presenza di spoiler)
La storia - che tanto per cambiare si basa su fatti reali, è quindi quella di Margaret Keane, nata Ulbrich, che un bel giorno decide di lasciare il marito e, infilati in tutta fretta quattro stracci in valigia (che io non ho mai capito perché la gente nei film infila sempre nelle valigie le cose prendendole a caso dai cassetti) sale in macchina con la figlia e si trasferisce a San Francisco.
Siamo alla fine degli anni '50, e Margaret che nel tempo libero dipinge tristi bambini dagli enormi occhioni, fatica a trovare lavoro, e nei week end si diletta ad eseguire ritratti nei mercatini artistici dei parchi cittadini, facendosi pagare pochi spiccioli.
Un giorno sfiga vuole che a fianco a lei sia posizionato il sedicente pittore Walter Keane, con le sue scene di strada parigine. L'uomo, manipolatore nel DNA, viscido e mellifluo come se ne vedon pochi, inizia ad intortare la povera Margaret, che, ingenua come un tordo, si innamora e, senza pensarci troppo, decide di sposarlo. 
Walter, millantando la qualunque, brama la fama più di ogni altra cosa al mondo, e, ottenuto il permesso di esporre sia le sue opere sia quelle di Margaret in un locale notturno, quando capisce che gli occhioni dei poveri bimbi piacciono alla gente, non ci mette né uno né due a dire alle persone interessate che l'artista è lui.
Margaret inizialmente si incazza, ma non abbastanza, e, convinta da Walter che l'arte prodotta dalle donne non vende, accetta che sia il marito a spacciarsi per l'artista dei "trovatelli".
Passano gli anni, i quadri di Keane e tutto il merchandising ad essi collegato vanno a ruba, fino al momento in cui Margaret inizia a capire (non è mai troppo tardi) chi è realmente suo marito, e, come in un deja-vu, ma stavolta senza nemmeno riempire le valigie a caso, carica la figlia in macchina e se ne va. Inizia una nuova vita alle Hawaii fino al momento in cui, dopo essere diventata Testimone di Geova, deciderà che è giunta l'ora di dire la verità, con tutte le conseguenze del caso.


Non griderò allo scandalo come molti perché questo film di Tim Burton non sembra un film di Tim Burton. E allora? Magari si sarà rotto i coglioni anche lui di fare sempre lo stesso film, no?
E' un film essenziale e asciutto, che non cede - ad eccezione degli occhioni - a facili sentimentalismi. Brava la Adams (e, viste le foto d'epoca della vera Margaret, molto somigliante), immensamente fastidioso il Walter Keane di Christoph Waltz, forse un po' troppo sopra le righe, ma credo che il doppiaggio gli dia una grossa mano, di Terence Stamp ho già detto, e, per concludere, la lesbica che è in me ha trovato fighissima l'attrice che interpreta Dee-Ann, la giustamente scettica amica di Margaret, ovvero Krysten Ritter. 
La vera Margaret Keane, che, a differenza di Walter Keane è ancora viva, compare in una scena del film: è la vecchietta che legge seduta su una panchina, mentre Walter e Margaret dipingono nel parco. 
Se volete vedere un classico film di Tim Burton è probabile che questo film non vi piacerà e vi deluderà, in caso contrario, potete andare tranquilli. 

11 gen 2015

9 gen 2015

The Imitation Game

Sometimes it is the people that 
no one imagines anything of,
who do the things 
that no one can imagine.


Quando nel film sono iniziati i dialoghi, le mie orecchie hanno goduto.
Ho visto The Imitation Game in sala, un quarto d'ora dopo aver finito di vedere American Sniper. 
Dopo due ore di parlata texana biascicata, l'inglese di Benedict Cumberbatch e soci era talmente limpido e fluente, ma soprattutto così chiaro e comprensibile, che quasi non c'era bisogno dei sottotitoli. E' stato bellissimo.
Detto ciò sgombriamo subito il campo da dubbi: a me questo film, da ignorante della storia (e della scienza, e della matematica, e della crittografia) quale sono, è piaciuto.
Di Alan Turing sapevo (e so tutt'ora) davvero poco: che era un matematico inglese, per sua sfortuna omosessuale negli anni in cui in Gran Bretagna l'omosessualità era considerata un reato, che è considerato uno dei padri dell'informatica e che morì suicida.
Non è molto, lo ammetto.
E ammetto anche che, nonostante il film, non è che adesso io sia diventata la massima esperta di Alan Turing esistente sulla piazza. Ma credo di riuscire a farmene una ragione e a sopravvivere. Voi pure, suppongo.
Diretto da Morten Tyldum, di cui ho visto Headhunters il film si svolge - escludendo i flashback su Turing in età scolastica, interpretato dal bravo Alex Lawther e dalle sue inguardabili sopracciglia - su due piani temporali, fra il 1951, nel momento in cui Turing viene arrestato con l'accusa di atti osceni e il periodo in cui, in gran segreto, durante la seconda guerra mondiale, lavorò con un team di altri cervelloni a Bletchley Park per il governo inglese, incaricato di decrittare i codici della macchina Enigma con cui i tedeschi comunicavano le loro operazioni militari.
Il film - che da quello che leggo in giro sta piacendo davvero a pochi - si basa fondamentalmente sulla magistrale interpretazione di uno strepitoso Benedict Cumberbatch, bravissimo a rendere sullo schermo le fragilità di un uomo geniale ma al contempo incapace di relazionarsi con gli altri, dai tempi in cui frequentava il college e poteva contare solo sull'amicizia di Christopher, ma non vanno trascurati nemmeno Keira Knightley nel ruolo di Joan Clarke, unica donna del team, e il sempre valido Mark Strong nel ruolo di Menzies, capo del MI6.
E, cosa da non sottovalutare, la sottile presenza di un pungente humour inglese, che, mi sorge il dubbio, con il doppiaggio sia andato totalmente a farsi fottere.


8 gen 2015

Pride

As we go marching, marching, in the beauty of the day 
A million darkened kitchens, a thousand mill lofts gray 
Are touched with all the radiance that a sudden sun discloses
For the people hear us singing, bread and roses, bread and roses.
As we come marching, marching, we battle too, for men, 
For they are in the struggle and together we shall win. 
Our days shall not be sweated from birth until life closes, 
Hearts starve as well as bodies, give us bread, but give us roses.
As we come marching, marching, un-numbered women dead 
Go crying through our singing their ancient call for bread, 
Small art and love and beauty their trudging spirits knew 
Yes, it is bread we. fight for, but we fight for roses, too.
As we go marching, marching, we're standing proud and tall.
The rising of the women means the rising of us all.
No more the drudge and idler, ten that toil where one reposes,
But a sharing of life's glories, bread and roses, bread and roses

L'ultimo film visto nel 2014 è stata questa pellicola inglese diretta dal semisconosciuto Matthew Warchus, presentato all'ultimo festival di Cannes dove ha vinto la Queer Palm. 
Si basa su una storia vera, ed inizia nel 1984 al Pride di Londra. Mark Ashton, gay attivista e militante, si chiede come mai i poliziotti ultimamente li stiano lasciando relativamente tranquilli, e capisce: non hanno tempo per i gay in quanto hanno di meglio da fare: prendersela con i minatori in sciopero dopo che la Thatcher decise di chiudere la miniera di carbone di Cortonwood nello Yorkshire a cui avrebbe fatto seguito la chiusura di altre miniere con la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro.
Decide quindi, con un gruppo di amici, di formare il LGSM (Lesbian and Gays Support the Miners) e di raccogliere fondi da destinare ai minatori e alle loro famiglie in difficoltà.
Ma i sindacati dei minatori non vogliono saperne di essere supportati da un gruppo di finocchi e non accettano il loro aiuto. Ma Mark e i suoi amici non si arrendono e decidono di contattare direttamente i minatori, scegliendo un piccolo paese del sud del Galles, Onllwyn, a cui offrire il loro supporto.
Per un malinteso telefonico, la piccola comunità accetta il loro aiuto, e un rappresentante della comunità si reca a Londra per ringraziarli.
Ma anche ad Onllwyn il supporto del LGSM non mette d'accordo tutti, in un misto di diffidenza, scetticismo ed ignoranza.
Quando il gruppo viene invitato a recarsi in Galles a conoscere i membri della comunità molti abitanti - ma non tutti - abbandonano i loro pregiudizi, gettando le basi verso una nuova forma di solidarietà.
Succedono un po' di cose che non starò qua a raccontarvi perché altrimenti vi racconto tutto il film, che a Torino sta riempiendo l'unica sala in cui è ancora in proiezione probabilmente grazie al passaparola,
Una commedia che fa riflettere con leggera delicatezza, intrecciando la storia dello sciopero con vicende personali, rapporti familiari, coming out, omofobia e AIDS.
Con una colonna sonora che è un vero e proprio tuffo nel passato, con pezzi di King, Dead or Alive, Bronski Beat, Billy Bragg ecc. e che, come direbbe quel mio amico, mi ha commosso al punto di farmi piangere come un vitello, a partire da quando le donne di Onllwyn attaccano a cappella Bread and Roses, maledette. 

7 gen 2015

American Sniper

Clint Eastwood, il texano dagli occhi di ghiaccio (che texano non è), dirige Bradley Cooper, un'altro che col Texas non c'entra nulla,  ma che per questo film, che si basa su una storia vera, il texano l'ha studiato prendendo lezioni di dizione in modo da riuscire a mischiare l'accento occidentale, quello rurale, quello meridionale e quello dei cowboy. Il risultato è assolutamente eccellente: infatti quando parla non si capisce una beata minchia. Probabilmente, vista anche la trasformazione fisica di Cooper, alla fine si è mangiato anche l'insegnante. 
La storia (vera) è quella di Chris Kyle, il cui padre gli ha spiegato, quando era ancora un ragazzino, che gli uomini si dividono in pecore, lupi e cani pastore. E che non bisogna essere né pecore né lupi. Chris diventa quindi quel cane pastore pronto a sacrificare tutto per proteggere e difendere la vita dei suoi cari. Mentre con il fratello partecipa ai rodei che si svolgono in quell'angolo d'America, vede in tv il servizio relativo agli attacchi alle ambasciate americane di Nairobi e Dar Es Salaam (agosto 1998) e decide di arruolarsi nel corpo dei Navy Seals. 
Spinto da quei valori tanto cari agli americani, "amore dio & patria", ovviamente Chris supera il duro addestramento e parte per il suo primo turno in Iraq diventando il cecchino più letale della storia militare americana.
I suoi turni in Iraq saranno quattro, e la lista dei nemici abbattuti, che contribuirà a farlo diventare "Leggenda" per gli americani e "diavolo" per i suoi nemici, che metteranno una taglia di 80.000 dollari sulla sua testa, arriverà a 160 (secondo le stime ufficiali, ma pare che possano essere stati molti di più), ma quello che sembra sconvolgere profondamente Chris non è l'elenco delle sue vittime, poco più che bersagli, ma i compagni che non è riuscito a salvare con il suo lavoro.
Il film alterna i periodi di Chris e del suo plotone in Iraq, prima a Falluja poi a Sadr City con quelli di congedo tra una missione e l'altra. Ed è proprio in questi momenti "casalinghi" che il film, in cui il protagonista mostra già i segni del disturbo da stress post traumatico di cui soffrirà una volta congedato, cede il passo all'inevitabile retorica a stelle e strisce soprattutto nei dialoghi con la moglie Taya, al limite dello stucchevole.
American Sniper non giudica (e ce lo possiamo far andar bene), e rimane in superficie. Rimane in superficie tratteggiando il personaggio di Mustafà, la nemesi siriana di Kyle, che, come lui, ha una moglie e dei figli, rimane in superficie nel breve incontro alla base aerea in cui Chris incontra il fratello minore, arruolatosi a sua volta, in un breve dialogo in cui si capisce che il Kyle piccolo si sta letteralmente cagando in mano, ma poi non se ne saprà più nulla.
American Sniper rimane in superficie, e, così facendo, non arriva al cuore.